Ecco perché l’uscita dall’euro deve essere tenuta segreta

E’ tutto scritto nel libro dell’onorevole Bagnai.

Alberto Bagnai
Alberto Bagnai

In un articolo sul Sole 24 Ore del 23 maggio, Lorenzo Codogno ed io abbiamo argomentato che, secondo i teorici leghisti no-euro, l’uscita dall’euro deve essere mantenuta segreta fino all’ultimo momento, il che rende poco credibili le affermazioni secondo cui l’intenzione del nuovo governo non è quella di uscire dall’euro. La faccenda della segretezza è sviluppata in un libro di Alberto Bagnai, ora deputato della Lega e molto vicino all’onorevole Claudio Borghi, intitolato “Il tramonto dell’euro” (Imprimatur editore, 2012). Anche se l’autore cerca di minimizzare l’entità dei problemi, egli è sostanzialmente consapevole che l’uscita dall’euro è un evento traumatico. Tant’è che il capitolo dedicato alla exit strategy si apre con questa frase: “Per chi sarà al governo al momento dell’uscita, gli elettori non avranno pietà”.

Bagnai non pensava che l’euro avrebbe potuto crollare quando al governo o comunque in maggioranza ci sarebbe stato proprio lui! Dunque, questa frase, che è indubbiamente vera, suona oggi un po’ ironica e forse è bene segnalarla a Salvini, a Di Maio e al nuovo Presidente del Consiglio.

Il perché di questa frase lo si capisce procedendo nella lettura. A pagina 325, c’è un paragrafo che si intitola: “La fase uno: attaccheremo all’alba”. Il linguaggio è volutamente militare, perché in effetti l’uscita ha le caratteristiche di un’operazione militare: “L’uscita deve, nella misura del possibile, cogliere alla sprovvista, giungendo inaspettata”.

Il motivo è chiaramente spiegato: “Nel momento in cui si annunciasse l’uscita del  Paese dall’eurozona, si verificherebbero immediate fughe di capitali, perché gli operatori residenti (famiglie, imprese, istituzioni finanziarie) cercherebbero di depositare i propri euro all’estero, temendo le conseguenze della svalutazione”.

Giusto e – aggiungiamo noi – nessuno comprerebbe più titoli di Stato per cui le aste andrebbero deserte e l’amministrazione pubblica non avrebbe più le risorse per far fronte alle proprie obbligazioni (pensioni, stipendi, fornitori, ecc.). Sarebbe quindi il caos, nel senso letterale del termine: ci sarebbe molto da fare per il ministro degli Interni.

Peraltro il nostro riconosce che mantenere la segretezza non è facileperché l’operazione necessita di un minimo di pianificazione (e quindi il coinvolgimento di diversi soggetti istituzionali) e sarebbe opportuno che avvenisse in modo coordinato con gli altri membri dell’Eurozona e le istituzioni europee, che devono essere in grado di prendere provvedimenti per minimizzare lo stress sui mercati”.

Giusto; e poi c’è un altro problema, che non è chiaro chi decide; correttamente l’autore si chiede se una decisione del genere non richieda una legge del Parlamento (e allora addio segretezza!) o se possa invece essere presa per decreto, salvo poi rischiare che il Parlamento non lo converta. Alla fine non si capisce come si potrebbe fare e si adombra la possibilità di “convocare una seduta speciale del Parlamento a mercati chiusi (venerdì sera?) per approvare d’urgenza una legge speciale”.

Quello che si capisce è che se l’intenzione del Paese di abbandonare l’euro trapelasse prima del dovuto (il che – abbiamo capito – sarebbe inevitabile) occorrerebbe prendere una lunga serie di misure draconiane volte a impedire a residenti e non residenti di portare i capitali, inclusi i depositi e le banconote, all’estero, “vietare l’accensione di crediti e debiti con controparte estera” (!!!??) e persino “vietare il rimpatrio dei profitti percepiti da aziende straniere sul territorio nazionale”. Più avanti, si parla di “chiudere i bancomat per evitare i prelievi durante il weekend” e di permettere l’uso dell’euro, ma solo per regolare piccole transazioni, in attesa che si completino i preparativi per mettere in circolazione il nuovo conio. E si propone di imporre alle banche di comprare i titoli del debito pubblico.

Queste misure, che forse funzionano nella Corea del Nord e in nessun altro paese, sarebbero giustificate dalla “necessità di gestire un’ondata di panico bancario”.   Può darsi, ma non è chiaro come l’economia possa sopravvivere anche solo un mese (ma si adombra la possibilità che ci vogliano invece sei mesi) in assenza o quasi di transazioni, mentre si fanno tutti i preparativi necessari: il collasso sarebbe pressoché inevitabile.

Né si capisce come possano sopravvivere le imprese e le banche che hanno debiti in euro e ricavi in nuove lire, dopo l’uscita dall’euro e la svalutazione della nuova moneta. Ma anche di questo problema il nostro è consapevole e a pagina 360 elenca le possibili contromisure che consistono nella sostanziale statalizzazione (temporanea?) dell’economia. “Le principali aziende di credito dovranno essere commissariate”, per le grandi imprese “la proposta è quella di valutare caso per caso la necessità di un sostegno pubblico”, per le piccole e medie imprese “la proposta è di allestire per esse linee di credito agevolato all’1%”.

Come si vede, si tratta di operazioni a rischio elevatissimo, in cui un piccolo errore di valutazione del governo può provocare danni gravissimi. E si tratta di operazioni di ammontare ingente che ovviamente verrebbero finanziate dalla banca centrale, con inevitabili conseguenze sull’inflazione.

Aggiungiamo che, secondo il nostro, il debito pubblico andrebbe tutto ridenominato nella nuova moneta, il che per i mercati significa default: lo Stato aveva promesso euro e invece restituisce lire svalutate. Ciò comporterebbe l’isolamento internazionale dell’Italia, cause infinite e, soprattutto, contromisure, sotto forma ad esempio di tariffe doganali, da parte degli altri paesi, che non starebbero certo a guardare.

La conclusione è che i teorici dell’uscita dall’euro sanno benissimo che si tratta di un’operazione ad altissimo rischio. Quindi non possiamo che auspicare che di ciò si rendano conto i politici che stanno formando il governo.

Per quello che ci riguarda, non possiamo che ribadire che le rassicurazioni sul fatto che l’Italia rimarrà nell’euro ci paiono poco convincenti: ci rimarrà sempre il dubbio che stanno solo cercando di prevenire il panico. Peraltro, l’Onorevole Claudio Borghi, che era presente al tavolo delle trattative per il cosiddetto contratto di governo ed è l’ispiratore dei miniBot e della sciagurata proposta di cancellare il debito con la Bce , ha sempre criticato l’idea del M5S di fare un referendum sull’euro, perché farebbe venire meno la segretezza del piano di uscita.

Aggiungiamo che, negli anni scorsi, tutto ciò che abbiamo scritto qui è stato oggetto di presentazioni pubbliche agli operatori finanziari internazionali ed è dunque ben noto ai mercati, che non possono che avere gli stessi dubbi che abbiamo noi.

Per fortuna, a quanto pare, nella coalizione di governo non sono tutti della stessa opinione. Ma ciò su cui sono divisi – è bene saperlo – è la questione di gran lunga più importante che dovrà essere affrontata.

“Con il voto a Grillo caos garantito – L’idea di M5S è che o si fa default o ci si affretta a ristrutturare il debito” Galli Giampaolo su Europa – 17/05/2014

Fanno bene le forze europeiste, anche in questi ultimi intensi giorni di campagna elettorale, a evitare una difesa retorica dell’Europa. Il richiamo ai grandi ideali di pace dei padri fondatori è sempre valido, ma dopo cinque anni di crisi economica convince poco. Dobbiamo guardare al futuro e dire quale Europa vogliamo. Alcuni argomenti degli euroscettici sono giusti – ad esempio che l’Europa ha reagito con grande ritardo alla crisi – ed è bene riconoscerlo, altrimenti ci si mette su un terreno difficile da difendere.

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“Il debito si cura con le riforme – La via della ristrutturazione non è percorribile per la nostra economia” – Giampaolo Galli su Il Sole24Ore – 15/05/2014

Quasi tutti gli economisti, anche quelli più critici verso l’Unione Monetaria, respingono come troppo rischiosa l’ipotesi di una rottura dell’euro. Da ultimo, Joseph Stiglitz ha voluto chiarire che le sue proposte sono volte a salvare l’euro non certo di affondarlo. Rimane però sul tavolo un’altra ipotesi radicale avanzata dallo stesso Stiglitz e, in Italia, da Lucrezia Reichlin (Corriere della Sera del 14 maggio): la ristrutturazione del debito pubblico. Questa ipotesi gode di un certo credito anche fra alcuni autorevoli consulenti delle cancellerie europee per una ragione che ha ben spiegato Carlo Bastasin sul Sole 24Ore del 7 maggio. Oggi il mercato ci sta dando fiducia perché c’è abbondanza di liquidità nel mondo. Ma si tratta di una fiducia condizionata. Permangono i rischi di una reazione avversa dei mercati fino a quando il debito non inizierà chiaramente a scendere rispetto al Pil. Come dice Bastasin: “Per i prossimi dieci anni, almeno, l’Italia dovrà assicurare una differenza fra entrate e spese pubbliche (al netto della spesa per il servizio del debito) vicino al 5% del Pil. Senza un’economia che cresce, sarà politicamente impossibile”. Ecco dunque il punto chiave. Dobbiamo riuscire a convincere chi investe nel nostro debito che per un lungo periodo di tempo, almeno un decennio, saremo in grado sia di fare riforme per la crescita sia di  tenere l’avanzo primario attorno al 5%, che significa tenere all’incirca in pareggio il bilancio complessivo. Se non riuscissimo a fare questo, la ristrutturazione del debito diventerebbe sostanzialmente inevitabile. Alla conclusione che questo sarà il destino dell’Italia arrivano coloro che non hanno più fiducia nel nostro Paese o che, come Stiglitz, rifiutano “l’austerità imposta da Bruxelles”. Questa conclusione è anche quella che sembra quasi dare un senso alle sconclusionate proposte del M5S. Beppe Grillo continua a ripetere che  “il paese è già in bancarotta”. E se così fosse avrebbe certamente poco senso preoccuparsi dei conti pubblici. Presto arriverà la catarsi liberatoria del default.

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“La minoranza si crede maggioranza” – intervista di Goffredo Pistelli a Giampaolo Galli – ItaliaOggi 11/04/2014

«Un grande sperpero di capitale umano». Giampaolo Galli, milanese, classe 1951, bocconiano, specializzato al Mit di Boston, a lungo a capo-economista e poi direttore generale di Confindustria, dopo esperienze al Fmi e in Bankitalia, da un anno e due mesi è deputato democrat.

E definisce così la vita parlamentare, in cui s’è immerso diligentemente.

Domanda. Onorevole, mi par di capire che un’azienda non organizzerebbe le sue assemblee degli azionisti così…

Risposta. Assolutamente no. Per il suo funzionamento, il Parlamento è straordinariamente inefficiente. Si passano i giorni a presentare emendamenti e, grazie al bicameralismo, tutto è dilatato: se va bene un provvedimento va due volte in commissione e due volte in aula. E poi trovi sempre qualcuno, nelle opposizioni, che obietta: «Non ne abbiamo discusso abbastanza». Che ci siano 630 persone che stanno giornate e giornate a votare emendamenti, aspettando che il «comitato dei nove» (organismo che alla Camera fa la prima analisi degli emendamenti, ndr) prenda delle decisioni, mi pare davvero incredibile. Insomma ci sono persone che hanno competenze e capacità e sono state elette per quello: mi pare uno spreco di risorse umane, appunto.

D. Al bicameralismo si metterà fine, come dice il suo segretario di partito nonché premier, Matteo Renzi…

R. Me lo auguro davvero. Ho invece forti perplessità sulle proposte di quanti insistono nel voler fare i senatori comunque elettivi. Se così fosse, rivendicherebbero le loro prerogative e saremmo punto e a capo. No, ho piena fiducia nel progetto del governo. E anche l’argomento dello sbilanciamento dei poteri, davvero non lo capisco, a meno che, nella mente di chi obietta, sia buona cosa avere due diverse maggioranza alla Camera e al Senato, che così si controllano a vicenda, come pericolasi sovversivi, non prendendo decisioni. Ecco, se c’è una cosa pericolosa per la democrazia è proprio questa. Ci andrei molto cauto.

D. Eppure al Senato ben 22 membri del suo partito hanno presentato un progetto alternativo a quello di Renzi.

R. La mia impressione è che nella rapida transizione di questo periodo ci sia una gara a chi fa il leader dell’opposizione interna.

D. Dunque sono critiche speciose…

R. Dico che è facile, leggendo un documento, capire se c’è contributo costruttivo o se si attacca per attaccare. Certo se i contributi sono mille, allora è chiaro che si vuol mettere il governo e le riforme in cattiva luce.

D. Ma poi, il congresso del Pd non è finito l’8 dicembre?

R. Infatti, il momento congressuale c’è stato e tutto il partito ha riconosciuto legittimità alle primarie e al processo di elezione del segretario. Per questo mi ha colpito, giorni fa, sentir dire a Cesare Damiano che non voterà il decreto sul lavoro perché, come parlamentare, non ha vincolo di mandato.

D. Invoca addirittura la Costituzione…

R. La Costituzione lo prevede ovviamente, ma se ognuno di noi facesse valere questo principio in modo rigido saremmo in presenza di una difficile crisi istituzionale. Qui c’è un problema di responsabilità verso il governo e verso le istituzioni. Capirei invocare l’assenza di vincolo di mandato di fronte a scelte davvero gravi del Governo, ma non è certo questo il caso.

D. A volte, i suoi colleghi di partito parlano come esponenti dell’opposizione: penso al discorso di Stefano Fassina il giorno della fiducia all’esecutivo, impressionante…

R. Non vorrei personalizzare, anche perché il mio dissenso da Fassina non mi impedisce di riconoscere che è una persona competente e intellettualmente onesta. Certo a me hanno colpito i toni usati da diversi esponenti del Pd, ad esempio con un ottimo ministro come Giuliano Poletti.

D. Come li giudica?

R. Toni da sindacalisti anni ’70, da sharia ideologica, laddove quelli di Poletti sono moderati, di riflessione puntuale sui fatti, sui dati.

D. E come se la spiega questa regressione?

R. È che alcuni pensano a Renzi come a un intruso: non capiscono che sono loro, adesso, la minoranza. Eppure…

D. Eppure?

R. Eppure accade che alcuni deputati democrat vicini alla Cgil, maggioritari in commissione lavoro come da antica tradizione, si sentano autorizzati a bloccare il governo. Sarebbe sbagliato, sbagliatissimo. E spero che prevalga l’atteggiamento della responsabilità. Ma mi faccia dire una cosa_

D. Prego, onorevole_

R. Io non sono classificabile come renziano o altro. Ho una mia storia e sempre, negli incarichi che ho ricoperto, a cominciare da quello in Bankitalia, ho cercato di guardare all’interesse del Paese.

D. In questo caso, dov’è l’interesse dell’Italia?

R. In questo caso è chiaro: nel processo di riforme intraprese, che sono radicali, da lungo attese dal Paese, necessarie per far ripartire un’economia tramortita da 15 anni di perdita di competitività, di peso abnorme dello Stato, di burocrazia eccessiva, di fisco oppressivo.

D. Senta sul Jobs Act, oggi decreto Poletti?

R. Lo chiamerei decreto Madia-Poletti, perché recepisce molto del lavoro svolto dal ministro Marianna Madia, da responsabile lavoro nella precedente segreteria.

D. Giusto, diamo alla Madia quel che è della Madia, visto che è spesso bistrattata. E le facciamo gli auguri per la nuova nascita. Dicevo, qualcuno pensa che si sarebbe dovuta fare la delega assieme al decreto legge, al fine di realizzare il contratto unico a tutele crescenti.

R. Secondo me, chi lo dice, vuol buttare la palla fuori dal campo. Alza il tiro per non far niente. Nessun imprenditore utilizzerebbe un contratto a tutele crescenti quando può utilizzare un contratto a tempo determinato, a meno che il primo sia sostitutivo del secondo, nonché anche che ci sia una forte stretta su tutte le altre forme di flessibilità in entrata. Il che non è ipotizzabile e troverebbe l’opposizione durissima del mondo delle imprese e anche di buona parte del sindacato. Se poi per contratto unico si intende quello prospettato da Pietro Ichino, allora ricordo che esso comporta l’eliminazione totale dell’articolo 18, il che lo rende molto più controverso del decreto Poletti.

D. E il mondo delle imprese, che lei ben conosce, che ne pensa?

R. C’è un apprezzamento che non ho riscontrato ai tempi del Pacchetto Treu o della legge Biagi. Gli imprenditori dicono che è un provvedimento chiaro, che semplifica loro la vita, che consente di evitare i pasticci delle partite Iva false, dei falsi contratti a progetto. «Per la prima volta un governo che capisce i nostri problemi», dicono. Tenga conto che partite Iva farlocche e contratti a progetto non prevedono tutele per i lavoratori e neanche l’applicazione dei minimi contrattuali.

D. Gli imprenditori son contenti, lei dice, ma Confindustria spesso non è tenerissima con Renzi. A cominciare da Giorgio Squinzi, come l’episodio della cena con Angela Merkel ha mostrato. Che bisogno c’era di precisare che, a tavola, la Cancelliera era fredda col presidente del Consiglio?

R. Più che commentare retroscena personali, farei una considerazione politica: Confindustria non può che stare dalla parte del rinnovamento di chi vuol ridurre il ruolo e il peso dello Stato, tagliare il cuneo fiscale, tutte richieste tradizionali del mondo delle imprese.

D. Non può che stare dalla parte delle riforme, sostiene lei, allora diciamo che Emma Marcegaglia sarebbe stata più renziana di Squinzi. È d’accordo?

R. Mi permetta di non pronunciarmi (ride)

D. Senta però è un fatto che mai come questo periodo Confindustria e Cgil si trovano spesso d’accordo.

R. Guardi che la coincidenza di posizione fra le due organizzazioni s’è avuta nell’ultima fase del governo di Enrico Letta…

D. Accusato di scarso coraggio per la legge stabilità, sia da Squinzi che da Susanna Camusso…

R. Esatto, quando fu detto che i 14 euro in più, in busta paga, erano solo una mancia. Queste posizioni spiegano meglio di ogni retroscena sulle cospirazioni di palazzo il perché sia caduto quel governo. E visto che gli euro in busta oggi sono 80, mi aspetto che, chi ha attaccato Letta ieri, oggi sostenga Renzi, fino a prova del contrario.

D. Di recente mi è capitato di intervistare un paio di imprenditori di livello, Mario Carraro ed Enrico Bracalente, e trovarli entrambi assai critici con Confindustria. Non è che il sindacato degli industriali, così com’è, abbia fatto il suo tempo? Mi pare che ci sia un disamore crescente…

R. Non so se sia crescente: c’è, è vero, un certo numero di imprenditori critici. Però sono aumentate le adesioni delle imprese e vorrei ricordare che quella è un’associazione volontaria: uno può non iscriversi.

D. Ricorre spesso l’accusa di gigantismo…

R. Sì, si parla dei costi elevati soprattutto delle associazioni locali. Ma gli imprenditori di Vibo Valentia, faccio un esempio, possono decidere di tagliare i costi, ridurre la burocrazia e anche di chiudere la loro associazione provinciale. A livello territoriale vi è la massima autonomia.

D. Qualcuno dice che dopo l’uscita di Fiat, Confindustria non abbia più molto senso…

R. L’uscita della Fiat pesa ma, onestamente, non condivido questa opinione, che so aver credito. Penso che Confindustria sia anche le altre aziende, sia fatta di imprenditori che cambiano continuamente, che vogliono risolvere i problemi dell’oggi. Gente che lavora, che compete, che non ha esitazioni, se necessario, a cambiare le strutture dell’associazione.

D. Una domanda personale: il precedente, col mondo confindustriale, è quello di Massimo Calearo, chiamato da Walter Veltroni, e non andò benissimo. Sente il peso di questo confronto?

R. Ognuno ha la sua storia, io credo di averne una diversa.

D. Certo, lui era un imprenditore, lei un dirigente di Confindustria, ma ritiene davvero che il Pd possa essere l’approdo giusto anche per chi intraprende?

R. Il Pd è un partito di governo. Le componenti che lo hanno formato hanno avuto per molti anni responsabilità di governo. Credo che nel Pd sia più forte che in altre forze, il senso di responsabilità verso la nazione, del fare oggi le cose che servono. Se uno parte dalla realtà e non dell’ideologia, non può che riconoscerlo.

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“Il Def #cambiaverso” – Giudizi positivi e criticità nelle opinioni di Natale D’Amico, Giampaolo Galli, Paolo Onofri, Nicola Rossi, Giacomo Vaciago – Europa 10/04/2014

La strategia di fondo c’è. Le coperture pure. La scommessa anche. Il Documento di economia e finanza e il Piano nazionale delle riforme quest’anno cambiano verso e provano ad imprimere una diversa direzione alla politica economica italiana. Riservando così un assaggio in salsa comunitaria a quello che potrebbe essere il semestre di presidenza italiana dell’Ue.

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