Giampaolo Galli: intervento in commissione Bilancio sulla Disciplina degli orari di apertura degli esercizi commerciali (esame Testo unificato C. 750 e abb)

Giampaolo GALLI (PD) osserva che il provvedimento in esame si pone in contrasto con le politiche di liberalizzazione perseguite dall’attuale Governo e presenta profili contrastanti con il diritto dell’Unione europea in materia di concorrenza, prevedendo la predisposizione di accordi territoriali che potrebbero configurarsi quali veri e propri «cartelli» tra imprese, passibili di sanzioni da parte dell’Autorità antitrust. Esprime, inoltre, perplessità in merito alla prevista istituzione, in un momento come quello attuale, nel quale si sta procedendo a consistenti interventi di riduzione della spesa pubblica, del Fondo per il sostegno delle micro, piccole e medie imprese del commercio, che rappresentano un settore con profili di criticità sul piano dell’efficienza economica e della competitività, in ragione dell’incapacità di realizzare economie di scala.

Il sottosegretario Pier Paolo BARETTA, segnalando che il proprio intervento è stato limitato agli aspetti finanziari del provvedimento e non ha riguardato il merito dello stesso, si dichiara disponibile ad un approfondimento degli aspetti sostanziali.

Tratto dal bollettino relativo alla seduta della Commissione Bilancio della Camera del 17 settembre 2014.

Dichiarazione di voto di Giampaolo Galli – esame congiunto del Rendiconto dello Stato per l’esercizio finanziario 2013 e delle disposizioni per l’assestamento per l’anno finanziario 2014

Il giudizio sul rendiconto 2013 non può che essere positivo perché sono stati tenuti sotto controllo i conti pubblici, il livello del disavanzo e dell’avanzo primario si sono collocati su valori migliori rispetto alla media dei Paesi europei. L’assestamento 2014 conferma queste tendenze.

A questi aspetti indubbiamente positivi ne corrispondono altri più problematici: l’ulteriore compressione delle spese per investimenti e il calo delle entrate tributarie dovuto alla recessione dell’economia.

L’aspetto che più ha suscitato preoccupazione è l’aumento del rapporto debito/PIL fino a oltre il  132 per cento.

Come ha già osservato la Corte dei Conti, il tema diventa quello di quanto l’aggiustamento fatto sino ad ora sia tale da mettere in sicurezza l’Italia sotto il profilo della sostenibilità del debito pubblico. E dunque qual è lo sforzo aggiuntivo che deve ancora essere compiuto.

I dati ci dicono che, malgrado il cattivo andamento dell’economia che perdura sino al 2 trimestre di quest’anno, l’Italia ha fatto sostanzialmente ciò che era necessario per mettere sotto controllo la dinamica del rapporto debito/pil.

Sbagliano coloro che ritengono che l’Italia sia su un sentiero di insostenibilità del debito.

Sotto il profilo tecnico, osserviamo che, secondo le stime della Commissione europea, all’indebitamento netto pari al 3% corrisponde un disavanzo strutturale, ossia sostanzialmente corretto per il ciclo, pari a 0,7%. L’Italia dunque, anche nella valutazione della Commissione, non è lontana dal pareggio strutturale.

A questa considerazione, se ne aggiunge un’altra che è ampiamente condivisa dagli addetti ai lavori e nota agli investitori, e contribuisce a spiegare la fiducia che ci stanno accordando i mercati e dunque il calo degli spread.   Si ritiene cioè che la realtà del nostro deficit strutturale sia migliore di quanto non emerga dalle stime della Commissione. E’ uno dei molti punti che vanno chiariti a Bruxelles. Basti considerare che nel solo anno 2011 l’Italia ha fatto quattro manovre che assommano, secondo le stime di Banca d’Italia, a quasi il 5% del PIL come effetto sull’indebitamento 2013. Questo grande sforzo non è pienamente riflesso nei dati ufficiali della Commissione per motivi che sarà opportuno approfondire.

L’implicazione è che con una manutenzione intelligente dei risultati già raggiunti i parametri di finanza pubblica dovrebbero indirizzarsi nella direzione della sostenibilità non appena la situazione congiunturale e l’inflazione tornassero ad una condizione di relativa normalità.

Non è dunque giustificato il pessimismo che circola in alcuni ambienti riguardo alle prospettive del nostro debito.

E’vero invece – lo dobbiamo dire con forza – che i sacrifici fatti dagli italiani in questi anni non sono stati inutili.

Non hanno alcun senso le ipotesi di ristrutturazione del debito che sono apparse anche sulle prime pagine di alcuni quotidiani italiani.

La ristrutturazione del debito non sarebbe affatto una liberazione dalla necessità di perseguire la disciplina di bilancio, ma sarebbe una forma estrema di austerity concentrata in un brevissimo periodo di tempo. Sarebbe una tassa straordinaria e straordinariamente elevata, nell’ordine di svariate decine di punti di Pil. Per confronto la stretta fiscale operata dal governo Monti nel 2012 è stata di 2,5 punti di Pil.

Appare evidente che crollerebbe, ben più di quanto non sia accaduto sino ad oggi, la domanda interna con effetti devastanti sulle imprese e sull’occupazione.

Un’altra conseguenza sarebbe il default delle banche, con tutte le conseguenze che ciò comporta, come insegna l’esperienza della Grecia.

E’ difficile immaginare come l’economia possa riprendersi dopo uno shock di questo tipo.

E’ però certo che ci vorrebbero molti anni segnati da sofferenze sociali mai sperimentate prima.

Questo governo muove dall’assunto che bisogna tenere ferma la barra del timone dei conti pubblici perché le alternative sono molto peggiori, non per chi detiene capitali all’estero, ma per il popolo, per il nostro popolo, in particolare per i più deboli.

Dobbiamo ora fare ogni sforzo per rilanciare la crescita attraverso le riforme che questo governo ha iniziato a fare. E’ questa la condizione per negoziare con successo un cambiamento delle politiche europee.

Vanno ridotte le tasse sul lavoro, come non si è mai fatto prima e come invece si è iniziato a fare con il bonus Iperf di 80 euro.  I margini ci sono. Devono venire dalla spending review, che va fatta con grande serietà e determinazione, come è stato ribadito dal Presidente del Consiglio nonché in questa sede proprio oggi dal Ministro dell’Economia.

La riduzione delle tasse e le riforme servono perché oggi la nostra burocrazia, la giustizia, il fisco  sembrano fare di tutto per scoraggiare gli investimenti.

Le riforme in campo istituzionale ed economico che questo governo ha impostato, assieme al mantenimento di una ragionevole disciplina di bilancio, rimangono dunque le condizioni necessarie per la ripresa della produzione e dell’occupazione. Sono l’ingrediente indispensabile per poter finalmente tornare a percorrere il sentiero della crescita.

Per questi motivi, di natura tecnica e politica, dichiaro che il gruppo del PD voterà a favore dei due provvedimenti che sono oggi all’Odg.

> Consulta i due disegni di legge:

  • Rendiconto generale dell’Amministrazione dello Stato per l’esercizio finanziario 2013. (C. 2541)
  • Disposizioni per l’assestamento del bilancio dello Stato e dei bilanci delle Amministrazioni autonome per l’anno finanziario 2014. (C. 2542-A)

> Guarda il video dell’intervento in Aula

“Un passo avanti sul lavoro” Giampaolo Galli su Il Sole 24 ore – 08/04/2014

Nella discussione di questi giorni sul decreto Poletti si ha a volte la sensazione che alcuni degli oppositori non abbiano pienamente compreso come è cambiato il mercato del lavoro. Naturalmente tutti sanno che la fabbrica tayloristica non esiste più. Ma non tutti sembrano avere compreso che, nell’era di Internet, la realtà è segnata da una estrema frammentazione delle catene del valore e da rapporti di fiducia fra un professionista o un imprenditore individuale e pochi collaboratori.

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Perché no al progetto Meloni sulle pensioni d’oro

Il progetto di legge proposto dall’On. Giorgia Meloni che la Camera si accinge a discutere prevede che al di sopra di una certa soglia, fissata a 5.000 euro al mese, le pensioni in essere vengano ricalcolate con il metodo contributivo come definito dalla riforma Dini del 1995. Nelle intenzioni dei proponenti ciò dovrebbe eliminare ingiustificati privilegi, realizzare una maggiore equità fra generazioni, consentire di finanziare utili iniziative a favore dei giovani e delle pensioni più basse. Questo progetto e altri analoghi (ad es. quello che ha come primo firmatario Enrico Zanetti di Scelta Civica) devono essere respinti per i seguenti motivi[1]:

    1. Il risparmio di spesa che si ottiene sarebbe modesto rispetto al sacrificio che richiederebbe ai pensionati di bronzo. Che il gettito sia modesto è la conclusione cui sono giunti, dopo un lungo confronto fra addetti ai lavori, Tito Boeri e Tommaso Nannicini in un articolo su Lavoce.info del 26 novembre scorso (“Pensioni d’oro:il diavolo sta nei dettagli”). Non disponendo dei dati sui profili individuali di carriera, essi simulano quello che considerano il massimo effetto possibile del ricalcolo mettendo un tetto non a 5.000, ma a 2.886 euro (2.096 netti) e ottengono una riduzione di spesa al netto dell’effetto fiscale di non più di 307milioni di euro. Si può aggiungere che le persone con reddito pensionistico superiore a 5.000 euro lordi (3.400 netti) sono 188.000 e costano allo Stato 15,6 miliardi. Non disponendo di dati sui profili di carriera, si possono solo fornire degli ordini di grandezza. Facendo l’ipotesi più estrema e sicuramente irrealistica che lo squilibrio fra sistema retributivo e contributivo sia del 100% per tutte le pensioni sopra 5.000 euro, ossia che tutto il reddito in eccesso di 5.000 euro non sia giustificato dai contributi, il risparmio di spesa per l’Inps sarebbe di circa 1,8 miliardi al netto degli effetti fiscali. In questo caso 5.000 euro sarebbe un tetto monetario assoluto e tutte le pensioni di importo superiore verrebbero tagliate a questa soglia. Si tratta dunque di un estremo non realistico. Se si usano invece i dati pubblicati su Lavoce.info da Fabrizio e Stefano Patriarca (“Lo squilibrio nelle pensioni di anzianità” del 3-12-2013) lo squilibrio effettivo fra i due sistemi è ben più basso e si aggira fra il 10 e il 30%. Da questi dati si può sicuramente affermare che il risparmio di spesa sarebbe al più nell’ordine di qualche centinaio di milioni, forse nell’ordine delle decine. Ma molte persone con pensioni non d’oro, ma d’argento o di bronzo, ossia fra i 6 e gli 8 mila euro, sempre lordi, si vedrebbero decurtare la pensione del 15 o 30% o anche di più.
    2. Gli effetti distributivi sono mediamente regressivi.  Il sistema retributivo contiene in sé un forte meccanismo solidaristico di riequilibrio che consiste nel fatto che il cosiddetto coefficiente di rivalutazione annua della pensione quando i redditi superano i 45.000 euro scende al di sotto del 2% sino a ridursi allo 0,9 per cento per redditi superiori a 90.000 euro. Ciò significa che i redditi alti non potevano raggiungere l’80% della base retributiva, ma erano tipicamente compresi fra il 40 e il 50%. Questo meccanismo redistributivo è molto forte e al crescere del reddito può essere tale da compensare gli eventuali effetti di promozioni molto generose ottenute, tipicamente nel pubblico, negli ultimi anni di lavoro. Questa considerazione emerge chiaramente nel lavoro già citato di S. e F. Patriarca, in base al quale lo squilibrio fra sistema retributivo e contributivo ha un andamento a parabola che raggiunge un massimo del 30% circa per pensioni attorno a 4-5000 euro e si riduce al crescere del reddito sino a circa il 5% per pensioni di 11.000 euro al mese. Si aggiunga poi che i percettori di redditi alti sono tipicamente quelli che vanno in pensione più tardi e spesso superano la soglia dei 40 anni di contributi, cosa che nel sistema contributivo consente di maturare pensioni più elevate. In pratica, ciò significa che una pensione di 11.000 euro potrebbe rimanere invariata o, addirittura, dar luogo ad una legittima aspettativa di aumento, mentre una molto più bassa potrebbe facilmente essere ridotta di 2.000 euro. Naturalmente ci possono essere rilevanti eccezioni ad esempio in corrispondenza di promozioni davvero troppo generose negli ultimi anni della carriera lavorativa.
    3. Al di là delle medie, gli effetti distributivi sono imprevedibili e possono essere stravaganti. Una volta approvata la legge, le persone non sarebbero in grado di valutare le conseguenze sulla propria pensione perché non dispongono degli strumenti tecnici e concettuali per fare tale valutazione. Lo stesso Parlamento farebbe fatica ad apprezzare tutta la portata della norma sulle diverse categorie di persone. Ciò creerebbe uno stato di forte incertezza che certo non giova ai consumi e all’economia. Inoltre il criterio equitativo cui si fa appello, quello intra-generazionale, può portare a risultati stravaganti dal punto di vista dell’equità infra-generazionale, l’unica che le persone capiscono e che la Costituzione prende in considerazione. Ad es. due persone di ottant’anni con la stessa pensione possono subire un trattamento del tutto diverso a seguito del ricalcolo per molti motivi, tra cui la diversa età a cui sono andati in pensione molti anni prima. L’anziano che sia andato in pensione a 65 anni potrebbe non subire alcuna decurtazione. Invece l’anziano che sia andato in pensione a 55 anni, magari a seguito di una crisi d’impresa, potrebbe trovarsi a subire una decurtazione anche molto maggiore del 30%.
    4. Non esistono i dati per effettuare il ricalcolo sulla base del sistema contributivo. A quanto risulta, l’Inps non dispone dei dati per i dipendenti pubblici ante 1995 e per i privati ante 1974. Ciò non deve stupire perché nel vecchio sistema retributivo contavano i livelli retribuitivi e gli anni di contribuzione, ma non il loro ammontare. Peraltro l’ipotesi di usare calcoli di tipo forfettario analoghi a quelli in uso per i regimi opzionali non appare percorribile. Il ricalcolo va fatto all’ultimo centesimo per ogni singolo pensionato.

A queste argomentazioni di natura tecnica se ne aggiungono altre più fondamentali che riguardano in generale il tema delle pensioni elevate.

1.  Lo scandalo non sono le pensioni alte, ma è l’evasione contributiva.  La pubblicazione da parte dell’Inps della tabella sulla distribuzione delle pensioni ha sollecitato commenti scandalizzati riguardo al fatto che ci sono tanti poveri e pochi ma costosi privilegiati. Il fatto è che quella tabella è l’altra faccia della medaglia dell’enorme evasione fiscale che segna da sempre il nostro Paese. La gran massa di lavoratori autonomi, imprenditori e professionisti che nel corso degli anni hanno dichiarato poco o nulla al fisco hanno anche evaso i contributi. E ora hanno la pensione integrata al minimo, ma dispongono di mezzi patrimoniali consistenti, proprio perché non hanno fatto il loro dovere di contribuenti. Il reddito reale di queste persone era magari lo stesso di quello di un manager o di un ingegnere che oggi prende 200mila euro di pensione. E’ dunque evidente che in generale le proposte per colpire le pensioni d’oro prendono di mira la sola platea di coloro che nel corso della loro vita hanno pagato tasse e contributi.

2.  Con alcune eccezioni. Ci sono aree di privilegio legate a leggi speciali e a promozioni non giustificate nel settore pubblico. Si tratta di poche decine di persone. I pensionati sopra i 300mila euro sono 341. Forse su questi, o meglio su alcuni di questi, val la pena di focalizzare l’attenzione, senza furori iconoclasti, anziché sulla gran massa di dirigenti, manager, magistrati, giornalisti, professionisti onesti che nel bene e nel male hanno fatto la storia di questo Paese.

3.  Le sentenze della Corte Costituzionale vanno rispettate. La Corte Costituzionale si è occupata più volte di pensioni elevate. Da ultimo, nella sentenza 116 del 3 giugno 2013, ha dichiarato incostituzionale il contributo di solidarietà (pari al 5%, 10% e 15% sulle pensioni superiori rispettivamente ai 90mila, 150mila e ai 200mila euro lordi l’anno) che era stato introdotto nel luglio del 2011. L’argomento è molto semplice. Tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, senza distinzione di condizione personale o sociale (art. 3), quindi tutti i redditi devono essere trattati nello stesso modo e in base al criterio della capacità contributiva (art. 53). Non si capisce perché un manager in pensione dovrebbe essere tassato di più di un suo collega che è ancora in attività. Analogamente non si capisce perché un pensionato sopra i 5.000 euro debba essere penalizzato, mentre ciò non accade all’On. Meloni che guadagna, come parlamentare, ben più di 5.000 euro lordi al mese. Colpisce e rattrista che nella discussione che si è tenuta l’8 gennaio scorso alla Camera sulle mozioni in materia di pensioni elevate gli unici che hanno ribadito con assoluta coerenza questi concetti siano stati i deputati di SEL. Negli altri segmenti del Parlamento sembra che la Costituzione sia passata di moda. Per fortuna, non è passata di moda nel sito nens.it, dove sono stati pubblicati vari articoli a cura di Enzo Visco, Ruggero Paladini ed altri, secondo cui già il contributo di solidarietà e la parziale proroga della deindicizzazione delle pensioni disposti dalla legge di stabilità sarebbero incostituzionali. Si può discutere e vedremo cosa farà la Corte. Quello che è certo è che, se passassero progetti di ricalcolo delle pensioni, la Corte da un lato farebbe molta fatica a dare un senso a un sistema che fa appello ad un principio, quello dell’equità intergenerazionale, che non è presente nella Carta e nella giurisprudenza; dall’altro lato, si troverebbe di fronte ad una pletora infinita di casi stravaganti, di soglie arbitrarie, quale quella dei 5.000 euro, di dati arbitrari, quali quelli utilizzati per il calcolo del forfeit, che darebbero luogo a contenziosi infiniti, nonché a tensioni sociali e politiche. Inoltre da quanto sembra di capire l’intenzione dei proponenti è di conseguire risparmi di spesa ben più consistenti di quelli disposti con la legge di Stabilità 2014 che, lo ricordiamo, prevede un taglio di 53 milioni, togliendo circa 10mila euro a una pensione di 200mila e 30mila euro ad una pensione di 300mila. Se l’obiettivo dunque è quello di ottenere risorse per un miliardo e di ottenerle in via permanente e non in relazione ad uno stato di particolare urgenza sotto il profilo della finanza pubblica, allora sarebbe inevitabile la censura della Corte per manifesta irragionevolezza della norma.

In sintesi, il ricalcolo delle pensioni elevate, oppure anche un contributo di solidarietà più consistente di quello già disposto, consentirebbe risparmi di spesa molto modesti, nell’ordine delle decine o al più di qualche centinaia di milioni di euro. Verrebbe percepito come profondamente ingiusto perché colpirebbe pesantemente quel sottoinsieme di persone che durante la loro vita lavorativa hanno fatto il loro dovere pagando imposte e contributi. Sarebbe con tutta probabilità dichiarato incostituzionale.  In ogni caso contribuirebbe a minare ulteriormente la fiducia dei cittadini nello Stato italiano. Di fronte a cambiamenti così radicali delle regole del gioco chi potrà ancora pensare che le promesse pensionistiche che vengono fatte oggi ai pensionati di domani verranno mantenute? E se oggi si toccano le pensioni sopra i 7.000 o i 5.000, ma qualcuno già parla di 3.000, perché mai si dovrebbe credere che un domani lo Stato non metterà mano anche alle pensioni più basse, come peraltro già sta facendo con i vari blocchi delle indicizzazioni? E se viene meno la fiducia nello Stato non è del tutto illusorio sperare che le persone tornino a consumare, investire, fare impresa? Non è forse ovvio che qualunque progetto di rilancio dell’economia sarebbe destinato a infrangersi contro il muro della diffidenza? Ai pensionati come a tutti gli italiani la politica deve invece cercare di restituire tranquillità e fiducia nel futuro.


[1] L’autore percepisce una pensione di anzianità calcolata con il sistema retributivo. Il lettore è avvisato: faccia gli sconti che ritiene rispetto alle cose che legge.

Intervento nella discussione della “Manovrina” (dl 120/2013 – Misure urgenti di riequilibrio della finanza pubblica nonché in materia di immigrazione) – 14/11/2013

Signor Presidente, colleghi, il provvedimento che oggi esaminiamo si propone di correggere il disavanzo per il 2013 di 1,6 miliardi di euro, ossia lo 0,1 per cento del PIL, dal 3,1 al 3 per cento. Dal punto di vista macroeconomico, ossia degli effetti sui moltiplicatori del PIL e dell’occupazione, stiamo parlando di una quantità che non esito a definire non rilevante anche se, come nella discussione tutti i colleghi hanno detto, ci possono essere rilevanti effetti su singoli comparti dell’economia e della società italiana.

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