La via maestra di tagli e riforme – con Lorenzo Codogno, il Sole 24 Ore, 8 settembre 2017

L’idea che il disavanzo pubblico non debba essere ridotto, ma aumentato verso il 3% e anche oltre, è ormai sostenuta dalla quasi totalità delle forze politiche.

Per alcuni il debito pubblico è un problema rimosso. Altri, più responsabili, sanno che il problema esiste e, se interrogati seriamente sul punto, esplicitano quella che si potrebbe chiamare “la teoria del denominatore”: per ridurre il rapporto debito/Pil bisogna aumentare il Pil, il denominatore, e questo risultato lo si otterrebbe aumentando, anziché riducendo il disavanzo pubblico.

Di qui dunque la bacchetta magica, cioè due piccioni, anzi tre, con una fava: si fa più deficit e, con questo, si ottiene più crescita, meno debito e dunque più voti alle elezioni.

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Questa “teoria” ci sembra sconfessata dalla storia e dall’aritmetica: i dettagli numerici sono contenuti in tutte le analisi serie sulla sostenibilità del nostro debito pubblico, fra le quali quelle del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione Europea, entrambe facilmente reperibili on line.

Qui, nella speranza di far fare un passo avanti al dibattito, proviamo a dare il senso del ragionamento, argomentando la seguente affermazione: per ottenere la sperata riduzione del rapporto debito/Pil a seguito di un aumento, in luogo di una riduzione, del disavanzo si richiede che all’aumento della domanda aggregata determinata dal maggior disavanzo si aggiungano potenti, quanto improbabili effetti d’offerta. Questi effetti d’offerta dovrebbero essere in grado di produrre un aumento non del livello, ma del tasso di crescita di lungo periodo della produttività del sistema e dunque del Pil. Il solo meccanismo dei moltiplicatori keynesiani non basta.

Per cogliere questo punto basta considerare che un aumento permanente del disavanzo (dovuto ad esempio a una riduzione dell’Irpef o a un aumento degli stipendi pubblici) determina un aumento permanente del livello Pil —ipotizzando che il moltiplicatore sia positivo, il che non è del tutto scontato―, ma causa anche un incremento permanente, ossia che si ripete ogni anno, della crescita del debito, il che alla lunga genera un aumento del rapporto debito/Pil e non è sostenibile. Ciò è vero se ci si muove all’interno del mondo keynesiano, in cui vi è capacità inutilizzata e il Pil è trainato dalla domanda.

In linea di principio, le cose possono cambiare se si prendono in considerazione gli effetti d’offerta. Alcuni ad esempio sembrano ritenere che un grande piano di investimenti pubblici si potrebbe autofinanziare. Chi pensa questo di solito si qualifica come “keynesiano”, ma è utile chiarire che l’effetto desiderato si avrebbe solo nel caso in cui i maggiori investimenti pubblici determinassero una spinta potente sul tasso di crescita della produttività del sistema, ossia sull’offerta, oltre che sul livello della domanda aggregata. Certamente possibile, ma non in modo così facile ed automatico come qualcuno ritiene. Dipende infatti criticamente dalla qualità degli investimenti e da quanto essi possono risultare “abilitanti” per il settore privato.

Un altro possibile effetto d’offerta è quello legato alla riduzione della tasse. L’idea è che il taglio delle tasse crei un clima positivo fra gli operatori economici e, per questa via, generi un aumento del tasso di crescita del Pil tale da riequilibrare automaticamente i conti pubblici.

Tutte queste ricette, ed altre simili, sono state tentate molte volte nel passato in vari paesi e non hanno mai prodotto i risultati sperati sui conti pubblici.

A scanso di equivoci, gli effetti di offerta sono cruciali e l’Italia deve continuare lungo la strada intrapresa negli ultimi anni per migliorare il suo potenziale di crescita. È essenziale rilanciare gli investimenti e allentare la pressione fiscale, ma per farlo l’unica strada che ci sembra percorribile è quella di ridurre la spesa pubblica corrente, contrastare l’evasione fiscale e continuare con le riforme strutturali.

Non c’è dunque una vera e propria alternativa rispetto a quello che il ministro Padoan definisce il ‘sentiero stretto’. In caso di fallimento di questa strategia, saremmo costretti a prendere in considerazione qualcuna delle soluzioni citate da Paolo Savona nel suo articolo del 6 settembre: una maxi patrimoniale oppure una maxi ristrutturazione del debito pubblico. Il prefisso “maxi” è cruciale perché o queste misure azzerano dal giorno dopo il ricorso al mercato, che oggi si aggira intorno ai 400 miliardi all’anno, oppure si ingenerano massicce fughe di capitali. Ma se l’operazione ha le dimensioni richieste, nell’ordine di varie decine di punti di Pil, essa avrebbe l’effetto di desertificare la domanda interna attraverso un drammatico impoverimento delle famiglie e il fallimento delle banche (a meno di contromisure ad hoc, che però graverebbero sulla finanza pubblica).  È anche lecito dubitare che uno shock di queste dimensioni sia compatibile con il mantenimento dell’ordine democratico. Dare in garanzia i beni pubblici non servirebbe a nulla. In primis perché implicitamente sono già a garanzia del debito pubblico, anche se non sta scritto. Inoltre, e soprattutto, perché non è chiaro cosa possa fare di un warrant sugli Uffizi un pensionato cui non venisse pagata la pensione.

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