La crescita grande assente al tavolo dei negoziati per il nuovo governo.

Come ha scritto oggi Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera, il grande assente al tavolo dei negoziati per il governo è la crescita perché il deficit italiano è un deficit di crescita. I dati sono impressionanti.

Fatto 100 il 1995, il Pil pro capite dell’Italia è oggi pari 106, il che significa che l’Italia è praticamente ferma da quasi un quarto di secolo (si veda la Fig. 1). Tutti gli altri paesi dell’Ocse hanno fatto meglio, compresa la disgraziatissima Grecia che sta a quota 116 (Fig.2). L’Eurozona tolta l’Italia sta a quota 135, all’incirca come gli Stati Uniti. Il che ci dice che in soli 22 anni abbiamo accumulato un gap di sviluppo di quasi trenta punti percentuali, un’enormità. Indica altresì che malgrado tutti i suoi limiti e i possibili eccessi di rigore della politica di bilancio, se si toglie l’Italia, l’Eurozona tiene il passo con gli Stati Uniti.

Fra i maggiori paesi, il Giappone è quello che dopo l’Italia è cresciuto di meno, ma sta pur sempre a quota 121. Grazie a un drappello di imprese eccellenti e anche alle politiche seguite in questi anni, dal 2014 l’economia ha iniziato a riprendersi, ma l’Italia è uno dei pochissimi paesi Ocse che non sono ancora riusciti a recuperare i livelli pre-crisi. A oggi il Pil pro capite si è contratto del 8,2% rispetto al 2007. Quasi tutti gli altri paesi hanno ampiamente superato i livelli pre-crisi. L’Eurozona al netto dell’Italia sta sopra di 5,0 punti percentuali, gli Stati Uniti di 6,4. In ciascuno degli anni fra il 2015 e il 2017, l’Italia ha registrato una crescita del Pil di circa 1 punto al di sotto degli altri paesi dell’Eurozona.

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Per cogliere appieno la gravità del problema italiano, si consideri che i 30 punti di gap cumulato dal 1995 corrispondono a circa 500 miliardi di Pil perso e, con esso, quasi 220 miliardi di tasse e contributi. In altre parole se fossimo cresciuti come il resto dell’Eurozona (non come la Cina!) ora avremmo ampiamente risolto il problema del debito pubblico e ci avanzerebbero risorse per gli investimenti pubblici e il welfare. Il rovescio di questa medaglia è contenuto in un calcolo fatto da Jean Pisany-Ferri (Sole 24Ore del 2 maggio): se dall’avvio dell’euro, la Francia avesse avuto gli stessi avanzi primari dell’Italia, il suo debito pubblico sarebbe oggi al 45% del Pil, anziché al 97%. Noi abbiamo gli avanzi primari, ma, non avendo la crescita, non riusciamo a risolvere il problema del debito.

I dati sulla mancata crescita spiegano perché la condizione sociale del Paese sia tanto problematica. Quando un paese non cresce per un periodo di tempo così lungo, qualcuno migliora la propria condizione, ma molti altri la peggiorano. Di qui l’aumento dell’incidenza della povertà e l’elevata disoccupazione. In Germania la disoccupazione era al 3,6% in gennaio, mentre in Italia all’11,1%.

Non è vero che la difficile condizione sociale sia la conseguenza di riforme cosiddette ‘neo-liberiste’ che avrebbero aumentato le diseguaglianze e favorito i ‘soliti noti’. Al contrario, ricerche recenti della Banca d’Italia mostrano che le diseguaglianze da noi sono rimaste pressoché invariate da un quarto di secolo e non sono aumentate neanche durante la crisi.

Un esempio per tutti di ciò che non va in Italia è la gara per la sede dell’EMA. Come noto a Milano, l’edificio c’è già (il Pirellone); ad Amsterdam lo devono costruire. Quando qualcuno ha obiettato che i tempi per la costruzione rischiavano di saltare per i ricorsi, gli olandesi hanno risposto che da loro questo problema non si pone. Sono stati presi in parola.

E che dire dell’Ilva, del Tap (che richiede di spostare pochi ulivi che poi vengono rimessi in loco) o di Tempa Rossa o dei rigassificatori che nessuno vuole?

Queste cose si pagano care, in termini di punti di Pil e di povertà crescente. Va bene potenziare il welfare per aiutare chi sta in difficoltà, ma senza una crescita robusta non si va da nessuna parte. Chi ci sta pensando?

Fig. 1.

Fig. 2

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