Il governo deve convincere i mercati che farà “whatever it takes” per rimanere nell’euro, con Lorenzo Codogno, Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2018

A parte il Ministro Tria, sembra che il governo non si preoccupi particolarmente dello spread di rendimento tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi, il quale oscilla ormai da molti giorni attorno a 230-270 punti base. Il presidente del Consiglio ha opportunamente affermato che “l’uscita dall’euro non è mai stata in discussione, non è entrata nel contratto di governo e non è un obiettivo che ci proponiamo in questa legislatura”. Ha poi però anche aggiunto: “non facciamo dello spread un vessillo”, quasi a voler minimizzare la serietà della questione rispetto a quelle che sono le esigenze dei cittadini che vanno prioritariamente soddisfatte. Ci consenta il Presidente di osservare che lo spread certo non è un vessillo per nessuno, ma è una faccenda tremendamente seria. Lo è non per una qualche complicata ragione finanziaria; lo è per l’economia reale. Innanzitutto, uno spread elevato è un inaccettabile spreco di risorse, perché è un costo per lo Stato e comporta maggiori tasse o minori possibilità di spesa in futuro. Cento punti base di maggiori interessi si traducono in un costo aggiuntivo per lo Stato di circa 2 miliardi dopo un anno, più di 4 miliardi dopo 2 anni e più di 22 miliardi a regime, dopo circa sette anni. In secondo luogo, uno spread elevato sui titoli di stato si traduce in un più alto costo del credito per le famiglie e le imprese, e soprattutto in una sua minore disponibilità. Infatti, l’aumento dello spread spinge verso l’alto il costo della raccolta sui mercati finanziari per le banche italiane, e verso il basso la valutazione dei 341 miliardi di titoli di Stato nei loro bilanci, erodendo il loro patrimonio e riducendo la loro capacità di erogare credito. Questi effetti sono molto rilevanti, come dimostra l’esperienza del 2011. L’economia italiana entrò in recessione già nella seconda metà dell’anno, quando le principali misure restrittive introdotte dalle tre manovre che si susseguirono fra luglio e dicembre di quell’anno non erano ancora entrate in vigore. Anche se il Pil non si fosse ulteriormente contratto nel corso del 2012, la flessione già acquisita nella seconda parte del 2011, prevalentemente per via dello spread, avrebbe causato una recessione pari a circa l’1 per cento.  Gli ulteriori cali del Pil registratisi nel corso del 2012 aggiunsero un altro punto e mezzo alla recessione dell’anno e furono in buona parte dovuti al freno nell’offerta di credito bancario. I prestiti bancari alle imprese registrarono infatti una brusca frenata attorno alla metà del 2011 e addirittura diminuirono dal mese di dicembre e in tutto il 2012. Parallelamente i tassi bancari per famiglie ed imprese schizzarono verso l’alto. Le imprese furono quindi costrette a rientrare dai fidi in tempi brevissimi.

Fortunatamente, oggi lo spread è ancora lontano dai livelli raggiunti nel 2011, ma nelle ultime settimane si è ampliato ad una velocità analoga a quella del luglio-agosto del 2011. È inoltre evidente che un qualunque fattore di tensione interna o internazionale può produrre sbalzi improvvisi, come quello cui abbiamo assistito nella giornata del 29 maggio scorso.  Nonostante i fondamentali dell’Italia, in termini di crescita e debito pubblico, siano rimasti gli stessi, l’incertezza riguardo all’appartenenza all’euro ha generato una condizione di grande fragilità. In queste condizioni, accadimenti apparentemente minori possono mettere in modo una catena di reazioni e portare fino alla conseguenza estrema della perdita di accesso al mercato da parte dello Stato italiano. Sappiamo bene – e soprattutto lo sanno bene i mercati – che per la pattuglia dei no-euro presente nella maggioranza di governo, una violenta crisi finanziaria è un evento per nulla temuto, ma addirittura auspicato per portare alla rottura del sistema. E proprio il timore che questa sarebbe la reazione delle autorità italiane ad una crisi rischia di far sì che essa si realizzi effettivamente. Per questo, oggi il costo del nuovo debito per lo Stato è di oltre 100 punti base più elevato di un mese fa. Se il governo vuole evitare questo intollerabile spreco di risorse, nel momento in cui la BCE annuncia una pur graduale fuoriuscita dal quantitative easing, occorre una sorta di “whatever it takes”, pronunciato questa volta non dalla BCE, ma dal governo stesso. Come ha già iniziato a fare il Ministro Tria, l’intero governo dovrà cercare di convincere i mercati che   farà davvero qualunque cosa per evitare che si creino le condizioni che mettano a rischio la permanenza dell’Italia nella moneta unica. E questo vale anche per il rispetto della disciplina di bilancio. Se ciò non dovesse avvenire, lo spread rimarrebbe elevato e soprattutto l’Italia rimarrebbe esposta a rischi davvero imponderabili. Ci pare inverosimile che un governo, sia pure di rottura come quello attuale, voglia assumersi una responsabilità di questa portata per il futuro del Paese.

@lorenzocodogno    @GiampaoloGalli

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il Sole 24Ore, 19 giugno 2018

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