Decreto dignità: controproducenti le norme anti delocalizzazione, Inpiù, 3 luglio 2018

I nuovi governanti ci stanno inondando di esempi di quella eterogenesi dei fini applicata all’economia che, come spiegò Ludwig von Mises, si manifesta nel fatto di chiedersi se una certa politica sia giusta e non se produca gli effetti desiderati.
Così, i dazi sono “giusti” perché tutelano le produzioni nazionali, anche se finirebbero per penalizzare fortemente un paese esportatore. Sono “giusti” i vincoli sui contratti a termine, anche se alla fine, lungi dal fornire migliori tutele ai lavoratori, finirebbero per ridurre le chance di occupazione di alcuni milioni di persone.

È “giusto” abbassare l’età pensionabile per dare una prospettiva ai giovani che hanno carriere discontinue, anche se alla fine il maggior costo per lo Stato comporterebbe più tasse e meno lavoro proprio per i giovani.

Ancora più significativo è il caso delle misure di contrasto alle delocalizzazioni, che dovrebbero essere contenute nel cosiddetto “decreto dignità”.

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Chi delocalizza entro cinque anni dalla fruizione di un aiuto di Stato, non solo perde il diritto all’aiuto, come è normale, ma addirittura dovrebbe pagare una penale da due a quattro volte l’importo dell’aiuto ricevuto. È dubbio che questa misura possa davvero disincentivare le delocalizzazioni; al più le rallenta. Ma è certo che avrebbe l’effetto di ridurre l’efficacia di tutti gli strumenti di incentivazione, molti dei quali stanno funzionando e stanno facendo aumentare gli investimenti, anche dall’estero. Alla fine, forse si rallenterebbe l’esodo delle imprese dall’Italia, ma, come effetto netto, in Italia avremmo meno investimenti e meno occupazione.

Le garanzie concesse dal Fondo per il Credito alla Piccole e Medie Imprese sono una delle forme di aiuto più utilizzate e oggi le imprese ne chiedono il rafforzamento. Se passasse la norma del decreto dignità, per le piccole imprese si porrebbe un dilemma perché per molte di loro l’accesso al credito senza la garanzia diventa quasi proibitivo, ma l’uso della garanzia precluderebbe per un periodo di ben cinque anni non solo la delocalizzazione, ma anche una qualsiasi forma di internazionalizzazione dell’attività. E tutti gli studi dimostrano che le imprese che si internazionalizzano sono anche quelle che aumentano di più l’occupazione in Italia. Dulcis in fundo, la norma sarebbe retroattiva nel senso che pretenderebbe da chi – legittimamente – ha delocalizzato in passato la restituzione degli aiuti ricevuti, maggiorati ad un tasso d’interesse penalizzante, pari al tasso ufficiale più il 5%. Proprio non ci siamo.

Giampaolo Galli

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