Investimenti pubblici fra crescita e vincoli – Il Sole 24 Ore, 11 aprile 2017

Dopo il crollo registrato negli anni della crisi, l’Italia ha un gran bisogno di investimenti pubblici per ammodernare la sua rete di infrastrutture. Questa considerazione induce molti economisti a rilanciare la proposta della cosiddetta “golden rule”, ossia lo scorporo delle spese per investimenti dalle regole europee sui disavanzi pubblici. È questa un’idea con una qualche possibilità di successo? Alla luce del dibattito che si è svolto fino ad oggi, vi sono motivi per dubitarne.

Una prima obiezione, avanzata da molti economisti, è che ciò che definiamo come investimento nella contabilità pubblica non è necessariamente ciò che davvero conta per dare un futuro migliore a una nazione. Ad esempio, l’investimento in istruzione non può limitarsi alla costruzione o ammodernamento degli edifici scolastici – classificati come investimenti – ma riguarda anche la formazione e il trattamento economico degli insegnanti – voci classificate come spese correnti. Analogamente, le spese per la ricerca o per la sicurezza sono costituite principalmente da voci classificate come spesa corrente. Una seconda obiezione è che, una volta stabilito cosa si intenda per spesa di investimento, occorrerebbe definire degli obiettivi più stringenti di quelli attuali per le spese rimanenti. La “golden rule” avrebbe quindi l’effetto collaterale di introdurre un ulteriore elemento di rigidità nelle regole europee. Si aggiunga che l’evidenza circa l’effetto degli investimenti pubblici sulla crescita non è univoca. Nei dieci anni prima della crisi, il rapporto fra la spesa per investimenti pubblici e il Pil è stato in Italia circa il doppio che in Germania. Non ne sono seguiti effetti virtuosi sulla crescita dell’Italia rispetto alla Germania, il che suggerisce che la qualità degli investimenti sia assolutamente cruciale.

Una variante della teoria della virtuosità degli investimenti pubblici, ben sintetizzata da Pierluigi Ciocca sul Sole24Ore dell’8 aprile, fa leva sull’idea che gli investimenti attivino la domanda aggregata e che questa, a sua volta – attraverso il maggior gettito fiscale – riporti in equilibrio (o meglio, al precedente equilibrio) i conti pubblici. Sulla base di questa idea, si afferma che “se i due punti di Pil rivolti dal governo Renzi a trasferimenti e sgravi fiscali […] fossero stati investiti, l’aumento del Pil sarebbe risultato più che doppio rispetto al deludente 1% […]”, e che l’investimento pubblico, coperto all’avvio con debito, si sarebbe autofinanziato nell’arco di un biennio.  Idee come questa sono molto diffuse fra illustri economisti di “scuola keynesiana” ed è dunque d’obbligo parlarne con rispetto, limitandosi a dire che molti economisti, fra cui il sottoscritto, faticano a capirne certi passaggi. Se il maggior gettito fiscale indotto dall’aumento della domanda aggregata fosse davvero tale da riportare in equilibrio il bilancio dopo un paio di anni, esso dovrebbe agire anche come una restrizione di bilancio ai fini della crescita, riportando il Pil alla sua dimensione iniziale: sarebbe così vanificato l’effetto virtuoso degli investimenti sul Pil. Più realisticamente, l’aumento del gettito fiscale non sarebbe tale da riportare in equilibrio il bilancio; in questo caso, il Pil si stabilizzerebbe su un livello più alto di quello iniziale, ma il maggior disavanzo contribuirebbe a un aumento permanente del tasso di crescita del debito. A secondo dei valori dei diversi parametri dell’economia, il rapporto debito/Pil potrebbe diminuire per un anno o due, ma alla lunga necessariamente crescerebbe. Un’eccezione a questo ragionamento fa leva sulla considerazione, adombrata nell’articolo di Ciocca, che il moltiplicatore della spesa diretta dello Stato è probabilmente più elevato di quello dei trasferimenti e delle imposte. Ma può essere vero il contrario, specie in un paese come l’Italia in cui la pressione fiscale sui contribuenti onesti è molto elevata: in queste circostanze, è cruciale ridurre le tasse, mentre un aumento degli investimenti pubblici finanziati con maggiori imposte potrebbe peggiorare il clima di fiducia del settore privato, con effetti netti che potrebbero essere addirittura negativi sul Pil. Possiamo certamente pensare a investimenti che migliorano radicalmente la produttività del sistema: ad esempio, quelli per la ricostruzione a seguito di calamità naturali. Ma anche in questo caso, non contano solo gli investimenti pubblici, ma tutto l’insieme d’interventi, fatti anche, ad esempio, di sospensione di obblighi di pagamento dei tributi, che sono necessari per consentire a una comunità di riprendere l’attività produttiva.

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In conclusione, gli investimenti pubblici sono essenziali, ma non sono l’unica ricetta per la crescita ed è cruciale sapere se sono finanziati con tagli di altre spese oppure con aumenti di tasse. La “golden rule” può dunque essere utile e può forse attenuare, ma certo non eliminare il vincolo di bilancio sull’uso delle risorse pubbliche. Inoltre, la strada per introdurla negli accordi europei è impervia e non priva di rischi collaterali.

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