Interrogazione a risposta orale al Ministro dell’economia e delle finanze

SEDUTA DEL 21 MARZO 2013

Interrogazione a risposta orale:

 

GIAMPAOLO GALLI, TARANTO, FASSINA, CAUSI e BARETTA.

Al Ministro dell’economia e delle finanze.

— Per sapere – premesso che:

la problematica del ritardo dei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni nelle transazioni commerciali relative a contratti di fornitura di beni e servizi e, soprattutto, dell’ammontare dei debiti pregressi costituisce, specie nella fase attuale, un peso insopportabile per la tenuta finanziaria del sistema produttivo, già sottoposto al credit crunch;

l’importo dei crediti che le imprese vantano nei confronti della pubblica amministrazione è particolarmente elevato: secondo Eurostat (Note on stock of liabilities of trade credits and avances, ottobre 2012) esso ammontava, nel 2011, a oltre 67 miliardi di euro, mentre la Banca d’Italia lo ha stimato pari a circa 70 miliardi di euro;

la questione dei ritardi dei pagamenti è stata affrontata nel corso della precedente legislatura con una serie di interventi normativi finalizzati a dare attuazione alla direttiva 2000/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000 e alla successiva direttiva 2011/7/UE del 16 febbraio 2011, sostitutiva della prima, mentre il problema dello smaltimento dei debiti pregressi è stato affrontato attraverso una pluralità di strumenti;

in particolare, l’articolo 9, comma 3-bis, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, e successive modificazioni, ha introdotto una disciplina specifica che prevede la certificazione, da parte degli enti debitori (enti territoriali, enti del Servizio sanitario nazionale, amministrazioni statali ed enti pubblici nazionali), dei crediti nei confronti dei soggetti interessati anche ai fini della cessione  pro-soluto o prosolvendo dei medesimi crediti nei confronti di banche o intermediari finanziari.

Il termine per la certificazione è stato fissato in 30 giorni dalla data di ricezione dell’istanza, scaduto il quale, su nuova istanza del creditore, viene nominato un commissario ad acta con oneri a carico dell’ente debitore;

sebbene il quadro regolamentare risulti ormai completato (alla normativa relativa alla certificazione dei crediti è stata data, infatti, attuazione con i decreti del Ministro dell’economia e delle finanze 22 maggio 2012, come modificato dal decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 24 settembre 2012, concernente la certificazione dei crediti da parte delle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici nazionali, e il decreto ministeriale 25 giugno 2012, relativamente alla certificazione da parte delle regioni, degli enti locali e degli enti del Servizio sanitario nazionale, integrato dal successivo decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 19 ottobre 2012) e il procedimento di certificazione sia disponibile anche su piattaforma elettronica, realizzata dalla Ragioneria Generale dello Stato e gestita da Consip Spa, il processo sembra svolgersi con estrema lentezza: secondo quanto affermato dal Ministro dello sviluppo economico Passera, al febbraio 2013 risultavano rilasciate soltanto 71 certificazioni, per un importo di 3 milioni di euro, mentre le amministrazioni pubbliche abilitate all’utilizzo della piattaforma sono solo 1.227 (di cui oltre 900 comuni del Centro Nord, e con solo 70 sono enti del servizio sanitario) e 289 le imprese;

sono, inoltre, intervenuti alcuni accordi (6 marzo 2012 tra la Cassa depositi e prestiti e l’ABI con cui la prima ha messo a disposizione 2 miliardi di euro destinati alle banche per le operazioni di acquisto dei crediti certificati vantati dalle pubbliche amministrazioni; 22 maggio 2012 tra l’ABI e le Associazioni delle imprese, attraverso il quale l’ABI si impegna a mettere a disposizione delle imprese un ammontare non inferiore a 10 miliardi di euro per lo smobilizzo dei crediti pubblica amministrazione, utilizzando la provvista acquisita dalla Cassa depositi e prestiti, ovvero dalla BCE, ovvero attraverso altri canali di finanziamento) e l’articolo 35 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, che ha reso disponibili 2 miliardi di euro per l’estinzione dei debiti pregressi mediante assegnazione di titoli di Stato, su richiesta dei soggetti creditori;

pertanto, l’ammontare finanziario sinora messo a disposizione delle imprese per lo smobilizzo dei crediti verso la pubblica amministrazione ammonterebbe complessivamente a 14 miliardi, – 2 miliardi dalla Cassa depositi e prestiti Spa, 10 miliardi dall’ABI, 2 miliardi per il pagamento dei crediti con titoli di Stato –, una cifra assolutamente insufficiente rispetto alle citate stime dello stock dei debiti della pubblica amministrazione;

consapevole della gravità e dell’urgenza di affrontare la questione, pena la sopravvivenza stessa del tessuto produttivo, il Partito democratico ha inserito questo tema tra gli otto punti del programma di Governo che sono stati sottoposti all’attenzione di tutte le forze politiche;

nelle conclusioni del Consiglio europeo del 14 e 15 marzo, sono state individuate, tra le priorità, « un risanamento di bilancio differenziato e favorevole alla crescita » e « il ripristino della normale erogazione di prestiti all’economia », ricordando nel contempo « le possibilità offerte dalle norme di bilancio vigenti del patto di stabilità e crescita e del trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance »;

il 18 marzo 2013, in una dichiarazione congiunta dei Commissari agli affari economici e monetari Olli Rehn, e all’industria e imprenditoria Antonio Tajani è stata fatta una apertura relativamente alla possibilità di estinguere i debiti commerciali: in sostanza, l’Unione europea invita il Governo italiano a proporre un piano di pagamento, nell’orizzonte di due anni, senza rischiare che ciò comporti la violazione del patto, poiché la liquidazione dei debiti commerciali potrebbe rientrare tra i fattori attenuanti in sede di valutazione della conformità del bilancio di uno Stato membro con i criteri di deficit e di debito del Patto stesso;

sempre dalla dichiarazione si evince che la Commissione è disponibile a cooperare con le autorità italiane per aiutare l’attuazione tecnica del piano di estinzione del debito commerciale pregresso e accoglierebbe con favore la disponibilità di informazioni più dettagliate e aggiornate sull’attuale ammontare di tale debito da parte di ogni livello di amministrazione pubblica;

da notizie di stampa si apprende che il Ministero dell’economia e delle finanze sarebbe pronto ad attuare tali misure anche mediante un provvedimento d’urgenza, si ipotizza, in particolare, (proprio a seguito delle dichiarazioni dei commissari Olli Rehn e Antonio Tajani) lo sblocco di circa 10 miliardi per le spese di investimento dei comuni, risorse già presenti nelle casse degli enti locali ma vincolate dal rispetto delle norme sul patto di stabilità e la successiva emissione ad hoc di titoli di Stato;

in questo modo si favorirebbe una importante immissione di liquidità nel sistema, utile a garantire la sopravvivenza di molte aziende, soprattutto medio-piccole, e il rilancio dell’economia –:

quale iniziativa intenda intraprendere il Governo e quale strumento intenda adottare al fine di sbloccare il pagamento dei debiti pregressi della pubblica amministrazione, anche a seguito della disponibilità manifestata nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 14 e 15 marzo e nella Dichiarazione congiunta dei Commissari europei;

quali siano le ragioni del ritardo nel processo di certificazione dei debiti;

a quanto effettivamente ammonti il numero delle certificazioni sinora effettuate.

(3-00005)

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Galli: Intervento alla prima riunione dei parlamentari Pd. 11/03/2013

Come molti di voi sono nuovo all’esperienza parlamentare. Ne sono onorato. Ne sento la responsabilità.

Per quello che mi riguarda spero di poter dare il contributo di un economista che ha vissuto nelle istituzioni, alla Banca d’Italia, e nelle organizzazioni di rappresentanza delle imprese.

Nei giorni scorsi ho intreccciato qualche discussione, non semplice, con economisti e imprenditori che simpatizzano o militano nel M5S.

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Ho trovato alcuni che vogliono un accordo con noi non perché ci rispettino, ma perché temono che lo stallo politico porti con sé il rischio di una crisi finanziaria.

Altri non lo vogliono, anche perché pensano che una crisi finanziaria che presumibilmente ci porterebbe fuori dall’euro sia meglio che rimanere in un euro dominato dalla Germania e dall’austerità.  In rete girano dottissime discussioni sui costi dell’euro.

Io dico che è poco utile discutere se l’euro sia stata una buona o una cattiva scelta. Io penso che sia stata buona, ma poco importa. Il punto è che anche solo discutere di uscire dall’euro è molto pericoloso perché ci espone a rischi devastanti in termini di perdita di fiducia dei risparmiatori nello Stato e, cosa che è ancora peggiore e finora non è successa, nelle banche italiane.

Non ho la palla di vetro e non so se uno stallo prolungato, che sfocerebbe in nuove elezioni, porterebbe al disastro oppure come sembra suggerire o forse sperare Mario Draghi l’Italia può andare avanti con il pilota automatico.

So che in Germania crescono coloro che non ne vogliono più saperne di noi e dell’euro. So che un numero crescente di  elettori tedeschi e di altri paesi del nord pensano che la soluzione migliore sia quello di costruirsi attorno una muraglia cinese per evitare il contagio dei paesi della periferia.

So che in uno stallo prolungato i rischi aumentano. E quand’anche il rischio fosse dell’1% o dell’1 per mille penso che questo è un rischio non accettabile.

Perché, in uno scenario di stallo, i casi sono due. O accade come l’anno scorso, ossia riusciamo a fermarci sull’orlo del baratro e ancora una volta nell’unico modo possibile che hai quando sei sull’orlo del baratro e cioè con dosi ulteriori di austerità che oggi sarebbero un incubo .

Oppure cadi nel baratro e allora c’è il rischio della rottura dell’euro, un rischio che io considero un rischio nucleare.

Un rischio che non possiamo correre, per noi per i nostri figli.

Dobbiamo dirlo al Paese, a tutto il Paese. Anche a Grillo e ai suoi elettori. Avranno anche loro qualche risparmio da parte, qualche soldo in banca o in titoli dello Stato.

In conclusione, questo Parlamento ha la responsabilità di fare un governo che affronti la drammatica crisi sociale. Gli 8 punti vanno benissimo.

Questo Parlamento ha il dovere di rassicurare, rapidamente, i risparmiatori italiani e quelli esteri che investono in Italia. Rassicurare le imprese che investono in Italia, altrimenti si blocca tutto.

Questa volta, a differenza dell’anno scorso, dobbiamo spegnere l’incendio prima si sprigionino le fiamme.

Dobbiamo farlo. Per farlo dobbiamo crederci.

Se non ci riusciamo, questa volta la responsabilità sarà nostra, di tutti noi eletti in questo Parlamento.

E’ il momento di assolutamente essere uniti attorno al tentativo, coraggioso, del segretario Bersani.

E’ il momento di esprimere nuovamente e convintamente piena fiducia nel Presidente della Repubblica.

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Barry Eichengreen: i motivi economici per cui non possiamo uscire dall’euro

The euro: love it or leave it?

Barry Eichengreen, 4 May 2010

Originally posted 17 November 2007, this Vox column is more relevant than ever arguing that adopting the euro is effectively irreversible. Leaving would require lengthy preparations, which, given the anticipated devaluation, would trigger the mother of all financial crises. National households and firms would shift deposits to other Eurozone banks producing a system-wide bank run. Investors, trying to escape, would create a bond-market crisis. Here is what the train wreck would look like.

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The world economy is continually changing, but one constant is dissatisfaction with the euro.  Toward the beginning of the decade, the main complaint was that the euro was too weak for booming economies like Ireland. Now the complaint is that it is too strong for growth-challenged countries like Italy.

To be sure, the source of the current problem is external.  It stems from the fall of the dollar, reflecting a combination of economic and financial problems in the United States, and the insistence of the Chinese authorities that the renminbi should follow the greenback. But that does nothing to defuse the complaints.

The negative impact is being felt by all Eurozone members.  But some countries where growth was already stagnant, such as Italy, are least able to cope.  Already in June 2005, following two years of euro appreciation, then-Italian welfare minister Roberto Maroni declared that “the euro has to go.” Then-prime minister Silvio Berlusconi followed by calling the euro “a disaster”. But this earlier episode of appreciation pales in comparison with what has happened since.  And if the dollar depreciates further and the US falls into a full-blown recession – both of which are more likely than not – calls like these will be back.

So is the euro doomed?  After seeing the number of Eurozone countries rise from 10 in 1999 to 15 at the beginning of 2008, will the process shift into reverse? If one country leaves the Eurozone by reintroducing its national currency, will others follow? Will the entire enterprise collapse?

The answer is no. The decision to join the Eurozone is effectively irreversible.

However attractive the rhetoric of defection is for populist politicians, exit is effectively impossible – although not for the reasons suggested in earlier discussions.

A first reason why members will not exit, it is argued, is the economic costs.  A country that leaves the euro because of problems of competitiveness would be expected to devalue its newly-reintroduced national currency.  But workers would know this, and the resulting wage inflation would neutralise any benefits in terms of external competitiveness.  Moreover, the country would be forced to pay higher interest rates on its public debt.  Those old enough to recall the high costs of servicing the Italian debt in the 1980s will appreciate that this can be a serious problem.

But for each such argument about economic costs, there is a counterargument.  If reintroduction of the national currency is accompanied by labour market reform, real wages will adjust.  If exit from the Eurozone is accompanied by the reform of fiscal institutions so that investors can look forward to smaller future deficits, there is no reason for interest rates to go up.  Empirical studies show that joining the Eurozone does result in a modest reduction in debt service costs; by implication, leaving would raise them.  But this increase could be offset by a modest institutional reform, say, by increasing the finance minister’s fiscal powers from Portuguese to Austrian levels.  Even populist politicians know that abandoning the euro will not solve all problems. They will want to combine it with structural reforms.

A second reason why members will not exit, it is argued, is the political costs. A country that reneges on its euro commitments will antagonise its partners.  It will not be welcomed at the table where other EU-related decisions were made.  It will be treated as a second class member of the EU to the extent that it remains a member at all.

Political costs there would be, but there would also be benefits for politicians who could claim that they were putting the interests of their domestic constituents first.  And politics have not rendered countries like Denmark and Sweden that have steadfastly refused to adopt the euro second-class EU member states.

The insurmountable obstacle to exit is neither economic nor political, then, but procedural.  Reintroducing the national currency would require essentially all contracts – including those governing wages, bank deposits, bonds, mortgages, taxes, and most everything else – to be redenominated in the domestic currency. The legislature could pass a law requiring banks, firms, households and governments to redenominate their contracts in this manner.  But in a democracy this decision would have to be preceded by very extensive discussion.

And for it to be executed smoothly, it would have to be accompanied by detailed planning.  Computers will have to be reprogrammed. Vending machines will have to be modified. Payment machines will have to be serviced to prevent motorists from being trapped in subterranean parking garages.  Notes and coins will have to be positioned around the country.  One need only recall the extensive planning that preceded the introduction of the physical euro.

Back then, however, there was little reason to expect changes in exchange rates during the run-up and hence little incentive for currency speculation.  In 1998, the founding members of the Eurozone agreed to lock their exchange rates at the then-prevailing levels. This effectively ruled out depressing national currencies in order to steal a competitive advantage in the interval prior to the move to full monetary union in 1999.  In contrast, if a participating member state now decided to leave the Eurozone, no such precommitment would be possible. The very motivation for leaving would be to change the parity.  And pressure from other member states would be ineffective by definition.

Market participants would be aware of this fact.  Households and firms anticipating that domestic deposits would be redenominated into the lira, which would then lose value against the euro, would shift their deposits to other Eurozone banks.  A system-wide bank run would follow. Investors anticipating that their claims on the Italian government would be redenominated into lira would shift into claims on other Eurozone governments, leading to a bond-market crisis. If the precipitating factor was parliamentary debate over abandoning the lira, it would be unlikely that the ECB would provide extensive lender-of-last-resort support.  And if the government was already in a weak fiscal position, it would not be able to borrow to bail out the banks and buy back its debt.  This would be the mother of all financial crises.

What government invested in its own survival would contemplate this option?  The implication is that as soon as discussions of leaving the Eurozone become serious, it is those discussions, and not the area itself, that will end.

Editor’s Note: ‘euro area’ was changed to Eurozone in line with Vox style guidelines.

The euro: Love it or leave it?

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