Il puzzle del salario minimo, nè una panacea nè un disastro, di Giampaolo Galli, Inpiù, 16 ottobre.

L’idea non deve scandalizzare: un salario minimo per legge c’è in 22 paesi dell’Ue e non ha creato disastri. Ma come tutte le idee semplici ha, oltre ai pro, ha anche dei contro. In primo luogo, i lavoratori del settore privato extra-agricolo che oggi percepiscono meno di 9 euro lordi all’ora – il minimo proposto dai Cinque Stelle – sono quasi 3 milioni, in prevalenza concentrati nel Mezzogiorno e fra i giovani. Si tratta quindi di una platea potenziale molto ampia che rischia di perdere il lavoro o di scivolare nel sommerso. I costi a carico delle imprese sarebbero di 3,2 miliardi e l’idea di Di Maio di compensare le imprese con la riduzione del cuneo fiscale non funziona perché non si può fare una riduzione selettiva a favore delle imprese che occupano lavoratori con stipendi bassi; tra l’altro, sarebbe un premio alle imprese inefficienti. Peraltro, un provvedimento che riguardi la generalità delle imprese e sia al tempo stesso capace di compensare le imprese penalizzate dal salario minimo sarebbe estremamente costoso per lo Stato. Non è poi priva di senso la critica dei sindacati secondo cui il salario minimo rischia di indebolirli e quindi – eterogenesi dei fini! – di peggiorare la condizione complessiva dei lavoratori che non è fatta solo di salario minimo.

Problemi complessi pone anche la proposta del Pd che si limita a riconoscere la validità erga omnes dei contratti firmati dalle organizzazioni più rappresentative: peraltro se il problema non fosse complesso non si capirebbe perché fino ad oggi sia rimasto inapplicato l’art. 39 della Costituzione che dispone esattamente questo. Il problema è che questa norma richiede di definire per legge cos’è un’organizzazione rappresentativa e a quale settore (ad es. Ateco Istat) appartenga ogni impresa. Il rischio è quello di ingessare la contrattazione e di creare delle corporazioni autoreferenziali, i cui funzionari opererebbero come impiegati semi-pubblici e risponderebbero assai poco agli interessi dei loro associati. Italo sarebbe costretto ad applicare il costoso contratto delle Ferrovie dello Stato, Fiat-Fca non potrebbe rimanere fuori dal perimetro Federmeccanica e, per altro verso, Ibm sarebbe costretta a uscirne perché, giustamente, l’Istat la classifica come azienda di servizi. Un sistema così rigido farebbe fatica a reggere di fronte alla legittima dialettica degli interessi in gioco.

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