La vecchia Europa e la Silicon Valley, di Giampaolo Galli, Astrid, 3 giugno 2019

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In Europa, da qualche tempo sta prevalendo una sorta di “technology pessimism”. Le nuove tecnologie dell’informazione non aiutano ad aumentare la produttività, distruggono posti di lavoro, trasformano i lavoratori in precari della Gig economy, mettono a rischio la nostra privacy e addirittura mettono a rischio i nostri sistemi democratici perché sono il veicolo per la diffusione delle fake news.  Le grandi imprese americane dell’ICT non pagano le tasse e non fanno abbastanza per limitare i rischi di cui sopra. Una bravissima giornalista britannica, Carole Cadwalladr, ha fatto un video che è diventato virale in cui accusa Facebook addirittura di “stare dalla parte sbagliata della storia”.

Silicon Valley non crede al declino della produttività

In un dialogo serrato su questi temi, un amico di nome Michael, un ingegnere informatico che lavora nella Silicon Valley, respinge queste accuse e mi spiega che con questi atteggiamenti e queste paure noi europei verremo tagliati fuori dai grandi sviluppi della tecnologia, a favore dei colossi americani e cinesi.

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Il punto d’attacco è la famosa intervista di Hall Varian al Wall Street Journal (16 aprile 2015) che si intitola: Silicon Valley non crede che negli Usa la produttività stia declinando.

La tesi è che le misure convenzionali del Pil non riescono a cogliere, se non molto parzialmente, gli enormi miglioramenti nella qualità della vita e del lavoro delle persone che le nuove tecnologie rendono possibili.  Il motivo è che quasi tutti i nuovi servizi sono gratuiti e quindi non entrano nella misura del Pil. Varian fa l’esempio delle fotografie: nell’anno 2000 nel mondo furono fatte circa 80 miliardi di foto, cosa che si può calcolare per il fatto che c’erano solo tre grandi imprese che producevano i rullini. Tenuto conto del costo dello sviluppo, ogni foto costava circa 50 centesimi di dollaro. Nel 2015, il numero di foto è salito a 1.600 miliardi (20 volte tanto; stima di Google) e il loro costo è sceso essenzialmente a zero. Per ogni essere umano – dice Varian – questo è un incredibile aumento della produttività, ma per gli statistici l’effetto sul Pil è nullo. Un altro esempio è quello del GPS che in origine era una tecnologia costosa che solo le imprese di logistica si potevano permettere. Man mano che il costo del GPS è sceso, questa tecnologia è si è diffusa fra i consumatori e il Pil è aumentato. Sino a che il prezzo è arrivato a zero e, a quel punto, il GPS è uscito dalle statistiche del Pil.

La verità è che il telefono cellulare, il manufatto che più di ogni altro caratterizza la nostra epoca, sostituisce un’enormità di beni e servizi che prima avevano un costo e contribuivano alle statistiche del Pil dunque della produttività: l’orologio, la sveglia, la posta, la torcia, le mappe, i giornali, i libri, le biblioteche scientifiche ecc.

Prendiamo l’esempio dei libri. Oggi, ogni essere umano dotato di un collegamento internet ha a propria disposizione più informazioni di qualità di tutte le biblioteche del mondo messe insieme. Non c’è biblioteca di Alessandria che tenga (e questo è facile), ma non c’è neanche Library of Congress che tenga.  Quanto vale questa incredibile massa di informazioni messa a disposizione di tutti in modo pressoché gratuito? Se uno Stato avesse voluto dare una enciclopedia ad ogni cittadino come contributo alla cultura, quanto sarebbe costato? Volete voi europei – continua Michael – ammettere che solo questo aspetto delle nuove tecnologie rappresenta per l’umanità un progresso che non è da meno di quello che si ebbe con l’invenzione della stampa o con l’introduzione dell’obbligo scolastico?

E le tasse?

Da europeo e da economista faccio varie obiezioni. La prima è che c’è una logica nel fatto che servizi gratuiti non entrino nella misura del Pil. La logica è che fino al momento in cui non si forma un reddito monetario, lo Stato non ha alcun vantaggio in termini di gettito fiscale. Quindi, le nuove tecnologie, anche ammettendo che migliorino la vita e il livello culturale, ad esempio, degli italiani (poi approfondiamo questo punto) non aiutano l’Italia a rendere più sostenibile il debito pubblico o il sistema del welfare. Il paradosso è che quando le fotografie e i libri erano costosi vi era un reddito monetario che lo Stato poteva tassare e con il quale poteva finanziare i beni pubblici.

A questa obiezione, Michael ha una mezza risposta: il problema è di voi europei che tollerate che alcuni paesi dell’UE siano dei veri e propri paradisi fiscale. Per noi americani, il problema non si pone perché alla fine esiste un reddito monetario tassabile che deriva dai proventi della pubblicità.

La risposta mi convince fino a un certo punto. È vero che c’è un problema di paradisi fiscali in Europa, ma la somma di tutti i fatturati delle imprese della new economy, quelle che producono e commercializzano le nuove tecnologie, è solo una piccola frazione dei fatturati di tutte le imprese della old economy che queste imprese hanno sostituito. Quindi quand’anche si riuscissero a eliminare i paradisi fiscale in Europa e nel resto del mondo e si riuscisse anche a trovare un accordo per redistribuire in modo equo il gettito fiscale della new economy fra gli Stati Uniti e i paesi utilizzatori, il contributo delle nuove tecnologie alla sostenibilità dei debiti pubblici sarebbe molto modesta.  Peraltro, anche negli Stati Uniti gli statistici economici fanno fatica a trovare un significativo effetto delle new economy sulla produttività del sistema: questo è infatti il cuore del “productivity puzzle” su cui si stanno esercitando schiere di economisti.

La conclusione di questa parte della discussione sembra essere che per la sostenibilità dei debiti pubblici bisognerebbe che gli stati vietassero l’utilizzo dei tanti servizi che ora abbiamo a portata di telefonino, facendo così, tra l’altro, la felicità di tutte le lobby della old economy che in Europa sono tanto agguerrite: gli editori, le concessionarie di pubblicità, le case discografiche, i produttori cinematografici, i tassisti, i produttori di orologi, i commercianti ecc, ecc.

Essendo questa conclusione palesemente assurda, sull’argomento abbiamo concordato di aggiornarci.

 Le fake news e il loro rovescio

L’altra obiezione all’idea della diffusione della cultura via telefoni cellullari è che questa non è vera conoscenza. Il web è diventato strumento di diffusione di notizie false, spesso manipolate da stati stranieri monocratici, interessati a mettere in crisi le nostre democrazie. Questo è il punto si cui è maggiore la distanza fra la sensibilità di Michael e quella di una qualunque persona di buona cultura in Europa. Voi europei – dice Michael – non credete veramente che i popoli siano in grado di autodeterminarsi. Siete fermi all’idea che ci vogliano delle élite – fatte di politici, giornalisti, editori, insegnanti, pensatori, economisti, preti ecc. ecc. – che fanno da filtro alle notizie. E voi europei credete che queste élite debbano essere sempre le stesse e abbiano una sorta di investitura che si tramanda di padre in figlio da tempi immemorabili. Noi americani della Silicon Valley, che siamo un po’ anarchici, crediamo nella democrazia. Pensiamo che si debbano mettere a disposizione dei popoli tutte le informazioni, poi saranno i popoli a scegliere da chi farsi governare, se farsi vaccinare oppure no, se fidarsi del fintech oppure rivolgersi allo sportello della vecchia banca ecc.

Se fosse dipeso dalle vecchie élite che ancora dominano in Europa – aggiunge Michael – forse non ci sarebbe mai stato il suffragio universale. Anzi, è evidente che il suffragio universale è stato un passo molto più coraggioso e anche rischioso di quello che si sta verificando adesso e che potremmo chiamare “passaggio verso una cultura universale, a disposizione di tutti”. In effetti, aggiungo io, il suffragio universale in Italia ha portato alla nascita dei partiti di massa e alla sparizione della vecchia democrazia liberale su cui si fondò l’Italia unitaria. E forse si potrebbe dire che se non ci fosse stato il suffragio universale, non avrebbero avuto successo i partiti di massa e fra questi il partito fascista in Italia e il partito nazional socialista in Germania.

Anche qui la discussione si deve fermare di fronte ad un evidente e insostenibile paradosso. C’è qualcuno che è disposto a sostenere che per evitare le tragedie del secolo breve sarebbe stato meglio mantenere i vecchi filtri per l’accesso al voto, basati sul censo o sul grado di scolarizzazione. La risposta è evidentemente no. Eppure, oggi non possiamo esimerci dal chiederci come si possano arginare i fenomeni di manipolazione dell’opinione pubblica che avvengono tramite il web. Una proposta che a me sembra ragionevole è quella di vietare l’anonimato sulle piattaforme dei social networks o quantomeno di rendere tali identità accessibili ad un magistrato. Qui Michael mi ferma. La segretezza del voto è un pilastro della democrazia; saresti disposto a farne a meno e addirittura a vietarlo? Ebbene, obbligare a rendere nota l’identità di chi scrive sui social sarebbe un po’ come violare la segretezza del voto, perché le persone non sarebbe più libere di scrivere quello che vogliono e magari, ad esempio, di parlar male del loro capo. Ancora una volta, si capisce che le élite europee non hanno davvero accettato tutte le implicazioni di un sistema democratico. E poi – dice Michael – ora voi vi state focalizzando sulle fake news messe in circolazione dalle democrature per aiutare i partiti populisti. Ma c’è il rovescio della medaglia: il web è un grande aiuto per chi si oppone alle derive antidemocratiche dei governi. Per un governo è molto più facile controllare i direttori di pochi giornali e reti televisive che milioni di utenti su un social network. In tanti paesi non democratici, il web è l’unica fonte di luce, come lo era radio Londra per gli europei ai tempi della guerra.

Il mito della disoccupazione tecnologica

Ma torniamo alle questioni economiche. Le nuove tecnologie creeranno un problema di disoccupazione di massa; i robot spazzeranno via milioni di posti di lavoro. Lo stanno già facendo, riducendo la domanda di lavoro per quelle che fino a ieri erano le professioni tipiche del ceto medio che oggi sta scomparendo. Per cui la società si polarizza fra pochi lavori molto pagati e tanti lavoretti della Gig economy.

Michael chiude la discussione, almeno per ora, con tre considerazioni. Innanzitutto, i lavoratori sottopagati della GIG economy sono meno dell’1 per cento degli occupati e il loro lavoro non è molto diverso da quello dei vecchi portalettere: man mano che si organizzano, i loro sindacati sapranno migliorare le loro condizioni di lavoro. In secondo luogo, la disoccupazione non è mai stata così bassa sia negli Stati Uniti sia nel complesso dei paesi avanzati. Alcuni paesi, come l’Italia e la Spagna, hanno un’alta disoccupazione, ma questo è un problema strutturale che riguarda il mercato del lavoro di quei paesi. È vero che molti lavori sono spariti –pensiamo alle dattilografe o ai tipografi –, ma i dati ci dicono che le persone sono state in grado di riconvertirsi e trovare nuovi lavori. Dunque non c’è nessuna evidenza che la tecnologia stia creando disoccupazione. La cosa straordinaria è che nella maggior parte dei paesi la rivoluzione tecnologica non sta neanche creando dei seri problemi occupazionali nella transizione. La gente sta imparando a usare le nuove tecnologie prima ancora che i governi siano riusciti a mettere in piedi le famose istituzioni per la formazione permanente e il life-long learning; con il web, la gente ha imparato a farselo da sé il life-long learning. Pensate alla differenza rispetto alla rivoluzione industriale quando milioni di persone hanno dovuto abbandonare le campagne o emigrare all’estero per trovare un lavoro.

Come le nuove tecnologie ci aiutano ad affrontare il problema dell’invecchiamento della popolazione

La seconda parte della risposta riprende l’inizio della conversazione. Se fosse vero che le nuove tecnologie creano disoccupazione, allora sarebbe accertato quantomeno che esse hanno un effetto positivo sulla produttività. Meno persone producono di più. Questa è la definizione di progresso tecnico che aumenta la produttività. Ora, sembra che voi europei abbiate paura di due cose contradditorie. Da un lato temete che lo spiazzamento delle imprese della old economy riduca la produttività, dall’altra vi preoccupate della disoccupazione tecnologica che è l’altra faccia della produttività. Vi ricordo – continua Michael – che in tutti i paesi avanzati siamo in pieno calo demografico. Se vogliamo mantenere gli attuali standard di benessere e anzi migliorarli o apriamo le porte agli immigrati – cosa che non sembra funzionare più nemmeno negli Stati Uniti – oppure apriamo le porte alle nuove tecnologie che consentono di rimediare al problema, proprio perché rappresentano un formidabile fattore di aumento della produttività. E poi riducono la fatica umana. Come le lavatrici e le lavastoviglie sono state cruciali per l’emancipazione della donna, così i robot e gli esoscheletri saranno cruciali per l’emancipazione non dal lavoro, ma dalla fatica del lavoro.

Insomma – conclude Michael – Facebook non sta dalla parte sbagliata della storia. Facebook, come tante altre società della new economy –  sta facendo la storia. Siete voi europei che rischiate di finire dalla parte sbagliata della storia, se non riuscirete a superare le vostre paure.

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