Rilanciare gli investimenti pubblici, Formiche, marzo 2019, n.145

In Italia, negli anni della crisi gli investimenti pubblici sono crollati di circa un terzo.  Il motivo fondamentale è che è molto più facile tagliare la spesa per investimenti che la spesa corrente. Un taglio alla spesa corrente colpisce quasi sempre interessi ben individuati, più o meno legittimi: è un danno emergente per qualcuno. Un nuovo investimento che non viene fatto comporta un mancato lucro per alcune imprese che in generale non sono univocamente individuate, se non dopo che sono fatti i bandi e le gare sono aggiudicate. La caduta della spesa per investimenti provoca dunque molte proteste, in primis delle organizzazioni che rappresentano le società di costruzione, ma non genera il tipo di reazioni che si hanno, ad esempio, quando viene chiuso un ospedale o un tribunale.

La cosa non ci consola molto, ma i dati dicono che il fenomeno non è solo italiano. In tutta Europa c’è stata una caduta degli investimenti negli anni in cui si è dovuto avviare una politica di consolidamento dei conti pubblici, dopo la grande impennata dei debiti dovuta alla lunga crisi che abbiamo vissuto dal 2008.

La prima cosa da fare dunque è di contenere la spesa corrente per far spazio agli investimenti. Purtroppo, in questo momento si sta facendo il contrario: invertendo una tendenza che si era affermata da vari anni, si aumenta la spesa corrente, principalmente per le due misure chiave del governo (reddito di cittadinanza e quota 100) e si toglie spazio agli investimenti. È anche facile prevedere che gli investimenti verranno schiacciati ancor più di quanto già non sia previsto nella legge di bilancio perché il deficit in corso d’anno sarà più alto delle previsioni.

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Al di là della congiuntura, vi sono alcuni fattori strutturali che rallentano le opere. Una prima questione è la cosiddetta sindrome “nimby”. Il tema ha a che fare con la scarsa fiducia che i cittadini hanno nelle istituzioni e anche nei lavori dei tecnici che debbono valutare ad esempio i possibili danni ambientali di un’opera. Molto possiamo imparare dai francesi e dal loro metodo del ‘débat public’ prima della progettazione di un’opera: metodo che dal maggio scorso un decreto del governo Gentiloni ha reso obbligatorio anche in Italia. Il Movimento 5S è l’espressione della sfiducia dei cittadini nelle decisioni delle istituzioni e degli esperti; si potrebbe dire che il M5S è la sindrome “nimby” al governo. Da un lato questo rappresenta un fattore di blocco delle opere, come stiamo vedendo sulla TAV; per un altro verso, forse paradossalmente, in qualche caso questo potrebbe essere un punto di forza perché i cittadini potrebbero essere meno timorosi di decisioni dannose se c’è l’avallo anche di un movimento tipicamente avverso alle opere. Ad esempio, il movimento no Tap sembra si sia molto indebolito dopo che la decisione del governo di procedere con l’opera.

Un secondo fattore di blocco delle opere è rappresentato dalla riluttanza a firmare da parte dei funzionari pubblici, riluttanza che è giustificata dal timore di interventi della Corte dei Conti o di interventi della magistratura. Questa è una questione di cui si discute da decenni, ma che non si riesce a superare. Il problema sembra essere che nella nostra architettura istituzionale l’efficacia dell’azione della magistratura conta meno della correttezza formale degli atti. Quindi il funzionario che firma e si assume delle responsabilità per far sì che la sua azione sia efficace corre dei rischi che possono essere anche molto seri, mentre il funzionario che non firma non si assume alcun rischio, anche se la mancata firma può avere conseguenze sociali molto negative. Uno degli aspetti del problema è che il danno erariale, di competenza della Corte dei Conti, non ha la natura di una sanzione per una colpa, ma è commisurato al danno presunto per la PA che spesso è del tutto fuori proporzione rispetto le possibilità economiche del funzionario.

Vi è infine, fra i maggiori fattori di blocco, il frequente ricorso alla giustizia amministrativa da parte delle imprese concorrenti che non sono risultate aggiudicatarie dell’opera. Un’indagine fatta alcuni anni fa dalla Fondazione “Italia Decide” trovò che nelle imprese di costruzioni italiane vi sono più avvocati che ingegneri. E questo dà la misura della gravità del problema.

Di tutti questi problemi, che stanno portando al fallimento anche le migliori imprese italiane di costruzione, si trovano solo deboli tracce nel dibattito politico corrente. La preoccupazione principale della politica sembra essere quella di combattere la corruzione. Il che è giusto, ma se diventa l’unico obiettivo, il risultato rischia di essere che non ci sarà più la corruzione, ma non ci saranno più neanche le imprese che devono fare le opere.

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