La fuga dei capitali dall’Italia, di Giampaolo Galli, Il Foglio, 2 febbraio 2019.

La caduta del Pil era stata ampiamente preannunciata dai tanti segnali di sfiducia che si sono accumulati nei mesi scorsi sull’economia italiana. L’aumento dello spread dal maggio scorso e la caduta degli indici di fiducia delle imprese ne sono la manifestazione più evidente.  Ma un indicatore non meno importante è quello della Banca d’Italia sui movimenti di capitali. Da questi dati si ricava che dal maggio scorso c’è stata una consistente fuoriuscita di capitali, italiani ed esteri, dall’Italia. Non una fuga precipitosa, anche se in qualche momento abbiamo rischiato grosso, ma una fuoriuscita continua, pesante e diffusa a tutti i comparti, a fronte della quale non stupisce che in Italia aumenti lo spread, la borsa cada più che altrove e gli investimenti produttivi si siano quasi fermati.

Fra aprile 2018 e novembre (ultimo dato disponibile), le uscite nette di portafoglio dall’Italia sono state ben 118 miliardi; per confronto, nello stesso periodo del 2017, erano usciti 35 miliardi. Impossibile individuare un colpevole dato che sono tutti colpevoli. La parte del leone l’hanno fatta i non residenti che hanno venduto titoli pubblici per 77 miliardi e titoli privati, inclusi quelli delle banche, per 22 miliardi. Gli italiani hanno portato all’estero 19 miliardi – almeno questo è quanto risulta dalle statistiche ufficiali cui forse sfugge una buona parte di transazioni illegali. Va anche detto che gli italiani si erano mossi prima di maggio, forse perché più attenti ai guai che avrebbero potuto succedere: allargando lo sguardo all’intero periodo da gennaio a novembre, infatti i miliardi che hanno lasciato il bel paese diventano ben 51.

In tutto questo, le banche hanno svolto un ruolo di cuscinetto e hanno aumentato la raccolta netta sull’estero di 33 miliardi da aprile (41 da gennaio). Questo dato, che nella bilancia dei pagamenti viene registrato come un afflusso di capitali verso privati italiani (perché si tratta di flussi intermediati dalla Cassa di Compensazione e Garanzia di Borsa Italiana), ha indotto qualche apologeta di complemento del governo a dire che in fondo le cose non vanno poi così male.

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Ma cosa sono questi 33 miliardi di raccolta bancaria? Essenzialmente sono prestiti a brevissimo termine, anche a un giorno, garantiti da titoli, attraverso operazioni di pronti contro termine. Una raccolta pronti contro termine garantita in astratto può essere fisiologica, ma, inserita nel contesto che si è detto, dà bene il senso della fragilità della condizione finanziaria dell’Italia. Si vendono i nostri titoli e al più si fa credito alle nostre banche, ma solo per pochi giorni e fronte di garanzie. Non si fidano di noi e ci tengono per la collottola, pronti a lasciarci andare.

Negli ultimi mesi, dopo l’accordo con la Commissione Europea sulla manovra, le cose sono un po’ migliorate e qualcuno ha ricominciato a comprare titoli italiani, come ci segnala la riduzione dello spread. Ma con l’arrivo della recessione, tecnica come si dice per addolcire la pillola, tutto il quadro di finanza pubblica viene rimesso in discussione e diventa probabile un aumento di circa un punto, invece che una riduzione, del rapporto debito/Pil. La nostra fragilità non è mai venuta meno e tornerà presto a far sentire i suoi effetti.

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