I troppi “se” che pesano sulla sostenibilità del debito, Il Sole 24Ore, 03-10-2018, con Lorenzo Codogno

L’intervista al Ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria pubblicata sabato da questo giornale è servita a chiarire alcuni aspetti cruciali della logica sottostante la manovra proposta dal governo. La domanda che ci si pone è se sia stata sufficiente a dissipare i dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico italiano, quei dubbi che fanno sì che lo spread sia tanto elevato.

Per rispondere a questa domanda, è utile partire da una considerazione aritmetica: l’obiettivo annunciato, deficit al 2,4% per tre anni, dovrebbe consentire di mantenere il rapporto debito/Pil costante o anche in leggera diminuzione, ma solo in presenza di tassi di crescita almeno analoghi a quelli degli ultimi anni e di un’inflazione attorno al 1,5%. Se la crescita dovesse ridiventare negativa, anche di poco, il rapporto debito/Pil tornerebbe a crescere; qualunque incidente di percorso, di origine interna o internazionale, sarebbe esiziale.

Una seconda considerazione rilevante è che l’Italia rinuncia a mettere in sicurezza i conti pubblici nel momento in cui le condizioni esterne sono relativamente favorevoli. Se l’Italia non lo fa ora, sarà forse costretta a farlo, sotto la pressione dei mercati finanziari, quando la congiuntura sarà peggiore e i tassi d’interesse più alti. Ma i costi sociali di un aggiustamento siffatto sarebbero sicuramente maggiori dei costi di un aggiustamento graduale in tempi normali. Di qui il dubbio che forse l’Italia l’aggiustamento non lo farà mai e che dunque il debito pubblico non è sostenibile.

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Una terza considerazione è che il 2,4% è assolutamente insufficiente per realizzare anche solo una minima parte del contratto di governo. Secondo le indicazioni del Ministro, tenendo conto dell’intenzione di disinnescare le clausole di salvaguardia che prevedono un aumento dell’IVA, della minor crescita rispetto al Def di aprile, dei maggiori interessi e delle cosiddette spese indifferibili, ‘a bocce ferme’ il deficit del 2019 è di circa il 2%. Quindi il margine per nuove iniziative in deficit è soltanto di 0,4% che corrisponde a circa 7 miliardi. A queste si dovrebbero aggiungere ulteriori risorse, ma non sembra che il governo abbia individuato importanti fonti di copertura tramite, ad esempio, una seria spending review, anche se il Ministro Tria la sembra suggerire.

In ogni caso l’ammontare complessivo sarebbe insufficiente per far fronte alle promesse del contratto di governo che, come noto, superavano i 100 miliardi. A questo si obietta che il programma verrà attuato gradualmente e che sarà finanziato dalla crescita economica, ma questa non è un’obiezione solida. Se il contratto a regime costa 100 miliardi, a regime esso appesantisce i conti pubblici di 100 miliardi e non è verosimile che la ripresa economica faccia il miracolo di rendere tutto questo sostenibile. Reddito di cittadinanza e aumento delle pensioni, nel migliore dei casi, possono dare un po’ di sostegno alla domanda, ma fanno ben poco per elevare la crescita potenziale del Paese nel medio e lungo periodo. Esse hanno però un effetto permanente sul deficit e dunque alla lunga causano un aumento del rapporto debito/Pil.

Il ministro Tria conosce bene queste obiezioni e per questo afferma che il deficit verrà ridotto dopo il triennio iniziale e sottolinea l’importanza del piano di investimenti annunciato. Ma non è facile capire come investimenti aggiuntivi per lo 0,2% del Pil possano giustificare una ripresa all’1,6% nel 2019 e 1,7% nel 2020. A ciò si aggiunga che l’aumento del costo del debito pubblico, conseguente sia all’aumento dello spread, sia ai probabili sviluppi della politica monetaria europea, potrebbe addirittura ridurre i margini di manovra. Tutto induce a ritenere dunque che il 2,4% per gli anni successivi al 2019, e forse anche per il 2019, sia destinato ad essere superato.  Nel complesso, un deficit al 2,4% o oltre può forse dare l’illusione di una espansione un po’ più forte per un anno o due, ma alla fine lascerà una crescita potenziale invariata e un debito più alto.

Si aggiunga che già oggi si sa che l’Unione europea difficilmente potrà far buon viso a cattivo gioco e che per le agenzie di rating sarà molto difficile mantenere i giudizi attuali. Occorre infine tenere conto che non è affatto dissipato il timore che, in caso di crisi, l’Italia scelga la strada dell’uscita dall’euro: circa metà dell’aumento dello spread che si è realizzato da maggio ad oggi è dovuto a questo timore.

Queste preoccupazioni sono ben presenti nell’autorevole monito del Presidente Mattarella. L’auspicio, che sembra divenire una sempre più tenue speranza, è che di questi rischi, non certo secondari, vogliano tenere conto il governo e il parlamento nel decidere i prossimi passi verso la legge di bilancio.                 @lorenzocodogno   @GiampaoloGalli

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