La crisi turca: cosa insegna all’Italia, Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2018, con Lorenzo Codogno

La crisi che si sta sviluppando in Turchia dimostra una volta di più che la sovranità monetaria ha dei limiti e in alcune circostanze può avere costi molti elevati. È vero che a volte può essere utile avere la possibilità di attutire shock esogeni o recuperare competitività attraverso lo strumento della svalutazione, ma ci sono limiti davvero molto consistenti a questa affermazione.

Il primo e più ovvio limite è che le autorità hanno un controllo molto limitato sul tasso di cambio. La svalutazione della lira turca ha sfiorato il 40% da inizio anno, il che configura una perdita di valore di gran lunga superiore a ciò che poteva essere ritenuto necessario per riequilibrare il pur elevato deficit di partite correnti. L’ultimo rapporto del Fondo Monetario Internazionale del luglio scorso indicava che per ripristinare l’equilibrio esterno sarebbe stata sufficiente una svalutazione compresa fra il 7 e il 15%. E non è ovvio che la storia sia finita qui. A volte, per buoni o cattivi motivi, gli investitori perdono la fiducia nella capacità di un paese di ripagare i propri debiti e disinvestono dalla sua valuta provocando effetti che vanno ben oltre ciò che può essere ritenuto utile o necessario.

Il secondo limite è che una svalutazione della portata di quella della lira turca ha due effetti che possono essere gravissimi. Innanzitutto, aumenta l’inflazione, che è oggi al 16%, ma che è chiaramente destinata a salire, comprimendo il potere d’acquisto di salari e pensioni. Inoltre, la svalutazione aumenta il valore dei debiti in valuta degli operatori residenti, siano essi banche, imprese o individui. Qualitativamente, questo è lo stesso problema che gli italiani ben conoscono per l’esperienza dei mutui in ECU dopo la svalutazione del 1992: la svalutazione della lira italiana provocò un improvviso aumento del loro costo, in termini di capitale e interessi, il cui valore era fissato in ECU. Il caso della Turchia è molto più grave perché la svalutazione è stata sin qui molto più forte ed è stato molto più ampio il ricorso all’indebitamento in valuta (sino al 67% del Pil).

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E qui veniamo al terzo limite della sovranità monetaria. Non è detto che un paese che non fa parte di un’unione monetaria abbia il privilegio di potersi indebitare nella propria valuta. La Turchia, che pure non è un paese privo di una propria politica estera molto autonoma, non ha potuto evitare di indebitarsi in dollari, attraverso debiti ufficiali o privati, per coprire lo sbilancio verso l’estero. Va poi considerato che, in generale, è meno costoso indebitarsi in una valuta che ha un grande mercato, come il dollaro o l’euro, che nella valuta locale. Vi è un tema di spessore del mercato, ma anche di fiducia. Gli investitori internazionali sono sempre restii a far credito a un paese nella valuta che il paese stesso può stampare in quantità eccessive proprio al fine di provocare una svalutazione e, con essa, una perdita di valore del debito contratto.

A fronte di questi problemi, alla politica economica si pongono dei dilemmi non semplici da risolvere. Malgrado la forte limitazione alla libertà di espressione, le organizzazioni delle imprese turche hanno deciso in questi giorni di far sentire la loro voce e stanno chiedendo che sia restituita l’indipendenza alla banca centrale e che questa faccia ciò che è necessario per ripristinare la fiducia nella lira turca. L’aumento dei tassi di interesse, rispetto all’attuale livello, già altissimo (17,75%), è una soluzione molto dolorosa – o chemioterapica, come l’ha definita un imprenditore turco – ma necessaria in queste circostanze.Tuttavia Erdogan ha messo sotto controllo la banca centrale proprio per evitare rialzi nei tassi di interesse, come del resto fanno spesso gli autocrati populisti.

Vi sono anche due altre due riflessioni importanti. La prima è che occorrono anni per guadagnare la fiducia di investitori e risparmiatori, ma questa può svanire velocemente con politiche errate. In presenza di persistenti condizioni di fragilità macroeconomica e finanziaria, sono bastati sviluppi in sé non molto rilevanti, sia a livello interno che internazionale, per scatenare la crisi.

La seconda lezione è che l’Italia è uno dei paesi che sembra risentire di più dell’effetto contagio della crisi turca. Come questo giornale ha ampiamente documentato, ciò non avviene a causa di una esposizione commerciale o finanziaria particolarmente elevata, ma della sua fragilità finanziaria di fondo.

Sono lezioni su cui l’attuale governo dovrebbe riflettere in vista delle importanti decisioni del prossimo autunno.   @lorenzocodogno   @GiampaoloGalli  Il sole 24Ore, 22 agosto 2018

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