Siamo ancora alle promesse senza coperture, Inpiù, 19 giugno 2018

A quanto pare, il governo non presenterà al Parlamento la parte programmatica del DEF che era stata lasciata in bianco dal precedente governo e rinvierà le scelte impegnative all’autunno o forse ad un decreto estivo. Per ora ci si limiterà ad un esercizio diplomatico per scrivere una risoluzione parlamentare che lasci aperte le opzioni di fondo. Questa sembra una strada obbligata perché la distanza fra la realtà e i programmi, o meglio le promesse elettorali, dei partiti è ancora abissale.

Qualcuno sostiene che la Commissione potrebbe darci lo spazio per disattivare in deficit le clausole di salvaguardia, ma persino questo appare improbabile: le clausole valgono lo 0,7% del pil e la loro disattivazione in deficit farebbe salire l’indebitamento netto del 2019 dallo 0,8% del quadro tendenziale all’1,5%, un valore quasi uguale all’obiettivo per il 2018 (1,6%) e che, data la crescita in atto, implicherebbe un peggioramento del saldo strutturale. Ciò sarebbe ovviamente incompatibile con le regole europee che richiedono un miglioramento, di 0,6%, del saldo strutturale, ma soprattutto sarebbe una grave imprudenza, dal momento che i bilanci vanno messi a posto nelle fasi espansive del ciclo economico e che fra il 2019 e il 2020 dovrebbero cominciare a manifestarsi i primi effetti sui tassi d’interesse della decisione della BCE di mettere fine, molto gradualmente, al QE.

Dunque lo spazio per le promesse elettorali è pressoché nullo, anche perché le coperture di cui i partiti hanno parlato fino ad ora e (spending review, taglio delle spese fiscale e “pace fiscale”) sono del tutto evanescenti. Può darsi che qualcuno nel governo coltivi l’idea di mettere l’Unione Europea di fronte ad una sfida esistenziale.

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Se la UE mette lo stop ai nostri programmi faraonici crea una frattura con un grande paese come l’Italia e verrà accusata dal nostro governo di impedire la realizzazione delle misure attese dai cittadini. Se invece ci lascia procedere lungo la via disastrosa dell’irresponsabilità fiscale verrebbe accusata dagli altri paesi di mettere a rischio la stabilità finanziaria dell’Eurozona. In questo clima, destinato a surriscaldarsi man mano che si avvicina la legge di bilancio, nel governo potrebbero prevalere coloro che puntano all’uscita dall’euro.

E allora è chiaro che è questa la discriminante di fondo; il governo deve decidere se vuole che l’Italia rimanga nell’euro assumendo comportamenti conseguenti. Le dichiarazioni di Tria hanno aiutato, ma non bastano. Il fatto che ancora ci sia ambiguità sull’appartenenza all’euro spiega perché lo spread continui a mantenersi su valori elevati, con tutti i danni che ciò comporta in termini di costo per lo Stato e di restrizione del credito all’economia. Finché non si esce dall’ambiguità su questa questione, nessun serio programma di governo potrà essere scritto e tanto meno attuato senza mettere seriamente a rischio la stabilità finanziaria del Paese.

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