Lezioni per le politiche di bilancio – con Lorenzo Codogno, il Sole 24 Ore, 19 gennaio 2018

La crisi economico-finanziaria ha intaccato la credibilità dei cosiddetti ‘esperti’ economici, anche in materia di politiche di bilancio. Eppure, c’è molto da imparare, non solo dalla teoria economica, ma anche dalle analisi empiriche e dall’esperienza accumulata negli anni.  L’occasione per fare il punto ci è stata offerta da un nostro lavoro pubblicato sulla rinnovata rivista Economia Italiana (on line su economiaitaliana.org) che verrà presentato il 22 gennaio alla Luiss.

La domanda di fondo che ci poniamo è se, come sostengono alcuni, la disciplina fiscale possa davvero essere controproducente, cioè portare a un aumento anziché a una riduzione del rapporto debito/PIL. O la domanda speculare, ovvero se politiche espansive, con riduzione di tasse o massicci programmi d’investimento, possano autofinanziarsi nel senso di produrre un aumento così consistente del reddito e delle entrate tributarie da riportare i conti pubblici al punto di partenza.

Nel lavoro, argomentiamo che queste proposizioni sono intrinsecamente insostenibili nel quadro di modelli keynesiani tradizionali in cui il reddito nazionale è trainato dalla domanda aggregata.

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In linea di principio, le cose possono cambiare se si considerano i cosiddetti fattori d’offerta. Un esempio è quello della curva di Laffer, cioè la riduzione delle aliquote fiscali marginali (o la flat tax proposta oggi) per indurre individui e imprese ad aumentare il loro impegno lavorativo, portando per questa via a un aumento del reddito e delle entrate fiscali nazionali. L’esperienza fatta nei primi anni dell’amministrazione Reagan ha convinto la stragrande maggioranza degli economisti che la riduzione delle aliquote può essere utile per la crescita economica, ma è nefasta per i conti pubblici e che quindi questo prima o poi si rimangerebbe i vantaggi in termini di crescita. Un secondo esempio di possibili effetti d’offerta è quello di investimenti pubblici particolarmente produttivi. In teoria, è possibile che gli investimenti pubblici si autofinanzino, soprattutto in periodi caratterizzati da bassi tassi d’interesse e forte carenza di domanda.  In pratica però non vi è alcuna forte evidenza che gli investimenti pubblici, nella definizione della contabilità nazionale, abbiano davvero una produttività maggiore di tante voci della spesa corrente. La qualità degli investimenti, come della spesa corrente, è la variabile cruciale.

Studi sviluppati dopo la recente crisi, cui hanno dato contributi decisivi Olivier Blanchard e Lawrence Summers, hanno focalizzato sulla dimensione dei moltiplicatori, che si stima siano considerevolmente maggiori nei periodi di recessione, e sul cosiddetto effetto di ‘isteresi’, cioè il danno permanente che una lunga e profonda recessione può provocare sul potenziale di crescita dell’economia.  La conclusione a cui porta questa letteratura recente è che ci sono buone ragioni per usare la politica fiscale allo scopo di stabilizzare l’economia in presenza di profonde recessioni e quando la politica monetaria deve ricorrere a strumenti non convenzionali che sono inevitabilmente meno efficaci. Questa conclusione modifica quella che era la visione dominante prima della crisi, che guardava con grande sospetto all’attivismo della politica fiscale per il rischio che i suoi tempi fossero dettati più dall’andamento dei cicli politici che dalle reali esigenze dell’economia.

Detto questo, due punti dovrebbero essere chiariti su questa ‘nuova visione’. Il primo è che si applica a situazioni rare, come la profonda recessione del 2008-2010. Il secondo è che questa nuova visione non giustifica affatto aumenti permanenti della spesa pubblica; al contrario, essa giustifica solo stimoli fiscali di natura temporanea, il che significa che a un’espansione fiscale oggi dovrà seguire un piano di rientro domani.

Vi è anche un altro importante caveat. Può accadere che misure restrittive abbiano effetti perversi, ossia negativi, sul rapporto debito/PIL, perché riducono il PIL più di quanto riducano il debito. Tali effetti sono di natura temporanea, ma possono durare per vari anni. Questo può rappresentare un problema molto serio per la gestione della politica economica perché i mercati finanziari vedrebbero un debito in, sia pur temporaneo, aumento e questo potrebbe far venir meno la fiducia nel paese. Potrebbe anche essere un problema per la coesione sociale, poiché l’elettorato dovrebbe sopportare sacrifici e non vedrebbe subito i risultati attesi. Ne traiamo la conclusione che, al netto di situazioni eccezionali in cui un paese rischia di perdere l’accesso al mercato, la politica giusta per rientrare da un alto debito pubblico è quella di un aggiustamento del disavanzo di tipo graduale; mentre quando la situazione congiunturale è più favorevole si dovrebbe fare di più.

Nel complesso, la grande recessione ha in parte cambiato la visione del ruolo della politica di bilancio, nel senso che strumenti eccezionali devono essere utilizzati in tempi eccezionali. Tuttavia, in tempi normali, le vecchie teorie e la vecchia saggezza accumulata, che vedono la disciplina di bilancio come un ingrediente essenziale di una politica economica sana, sono ancora fondamentalmente valide.

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