Intervento per “Brexit, un seminario on line” – LeoniBlog, 6 luglio 2016

Il Regno Unito non ha conosciuto nessuno dei mali che vengono spesso attribuiti all’Europa. Non fa parte dell’Euro e ha attuato una politica monetaria molto espansiva ben prima che lo facesse la BCE, non ha mai avuto l’austerity, ha fatto le riforme strutturali ai tempi della Sig.ra Thatcher, molti anni prima che diventassero patrimonio comune dell’Unione Europea. Checché ne dica Paul Krugman, in Inghilterra l’austerity non c’è mai stata: la politica di bilancio del Regno Unito è stata pressoché identica a quella degli Stati Uniti.

Durante la crisi, il disavanzo ha raggiunto in entrambi i paesi il 10% circa del Pil per poi scendere, più rapidamente negli Stati Uniti: ancora nel 2015 il disavanzo risultava più basso negli Usa (3,7%) che nel Regno Unito (4,4%). Dietro a questi dati ci sono tassi crescita dell’economia positivi e sorprendentemente simili. Entrambi i paesi hanno superato la crisi nel 2010 e da allora (2010-2015) hanno avuto un tasso di crescita medio quasi identico (2,1% gli Usa, 2,0% il Regno Unito). Nel 2015 la disoccupazione si è collocata al 5,3% negli Stati Uniti e al 5,4% nel Regno Unito.

Non ha dunque alcun senso il dibattito che si è sviluppato nei giorni scorsi in Italia e in altri paesi della cosiddetta “periferia”. L’ortodossia tedesca, posto che abbia davvero un ruolo in Europa, non c’entra nulla con le scelte degli elettori britannici. C’entrano invece il tema dell’immigrazione, che è stata la chiave della campagna per il Leave, e il fatto che nel Regno Unito – come in tanti altri paesi – l’Europa è diventata il capro espiatorio di tutti i problemi domestici. Il paradosso è che all’Europa sono state attribuite le colpe di scelte, come l’apertura alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone, che il Regno Unito aveva fatto prima degli altri e in piena autonomia. Non solo: il Regno Unito ha dato un contributo fondamentale affinché quelle scelte – che sono i pilastri nel mercato unico – diventassero patrimonio comune dell’intera Europa. Proprio per questo la Brexit preoccupa. Il paese più aperto e liberale d’Europa ha fatto una scelta di chiusura, ha ribadito che i confini nazionali, quelli definiti nel XIX secolo, sono ancora quelli che contano, quelli entro i quali si definisce la sovranità. Pensavamo che l’esperienza delle chiusure reciproche degli anni trenta del XX secolo e dei drammi che si sono poi succeduti sarebbero stati sufficienti ad immunizzarci dal rischio di ritorni nazionalisti. L’esperienza del referendum britannico e l’ascesa in tanti paesi di movimenti populisti, che sono tutti, più o meno apertamente, nazionalisti e anti-liberali, ci dice che non è così.

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Qui l’intero “Seminario Online” su Brexit, su blog dell’Istituto Bruno Leoni.

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