La ripresa è un fatto. Senza le riforme non sarebbe stata possibile. L’Unità, 31/01/2015

Nessuno più nega che in Italia sia in corso la ripresa. La Banca d’Italia stima per quest’anno un aumento del Pil nell’intorno dell’1%; per il 2016 appare sempre più realistica la previsione del governo di una crescita del 1,6%. Sappiamo che per tornare ai livelli pre crisi il cammino è ancora lungo, ma conforta molto il dato del Centro Studi di Confindustria sulla produzione industriale cresciuta a ottobre del 3,1% rispetto allo stesso mese del 2014. Guardando al di là delle fisiologiche oscillazioni mese per mese, il trend dell’occupazione è straordinariamente positivo. Questi sono i fatti. La discussione verte su quanto la ripresa sia attribuibile a fattori esterni e quanto alle riforme del governo.

Dalla risposta che si dà a questa domanda dipende, almeno in parte, la valutazione circa l’esistenza di margini di manovra per politiche diverse o più espansive per il prossimo futuro.
La tesi secondo cui la ripresa è attribuibile alle favorevoli circostanze internazionali ha una sua dignità “econometrica”. Se si usano, come fa ogni anno il DEF, le metodologie statistiche della Commissione Europea per valutare l’impatto delle manovre di politica economica si scopre che esse agiscono in misura significativa su un arco temporale molto più lungo di un anno e spesso più lungo di una legislatura. Ciò riflette l’esperienza di molti paesi in condizioni più o meno normali. Il punto è che l’Italia di oggi non è un paese in condizioni normali. E’ un paese che ha vissuto una forte discontinuità per via delle pesanti ripercussioni della crisi mondiale e della successiva crisi dei debiti sovrani in Europa. La questione decisiva, da cui dipende, secondo modalità assolutamente discontinue, il ritorno o meno della fiducia, è se l’Italia sia parte del problema oppure sia parte della soluzione della crisi europea. Durante il negoziato sulla Grecia, il Presidente del Consiglio ha affermato che l’Italia è percepita come parte della soluzione. Credo che questo sia vero. Ne è una riprova la forte crescita, sino a livelli pre crisi, di quasi tutti gli indici Istat che misurano la fiducia delle imprese e delle famiglie. Ne sono altresì una riprova il basso livello degli spread rispetto alla Germania – solo in parte attribuibili alla politica della BCE – e il buon risultato della quotazione in Borsa di Poste Italiane: con tutta evidenza molti investitori internazionali sono tornati a scommettere sul futuro dell’Italia. Ciò non sarebbe potuto accadere senza la straordinaria accelerazione del percorso riformatore impresso dall’attuale governo, in assenza della quale l’Italia sarebbe oggi percepita come un paese capace magari di reagire sull’orlo del baratro come fece alla fine del 2011, ma incapace di dare continuità agli sforzi di cambiamento che sono necessari per far fronte alla sfida della competizione mondiale.
Per il futuro prossimo, nella discussione sulla Legge di Stabilità, occorre essere ben consapevoli che la ripresa è ancora fragile e, soprattutto, che la fiducia è fortemente condizionata. Tanti fattori continuano a giocare contro l’Italia: l’alto debito pubblico, la forte perdita di competitività degli ultimi venti anni, un livello di litigiosità della politica che forse non ha eguali nel mondo avanzato, per citare i principali. In più, non è facile far dimenticare a investitori e risparmiatori che, almeno dagli anni settanta, la nostra è una storia di crisi finanziarie ricorrenti. Perderemmo dunque rapidamente la fiducia se tornassimo ad essere percepiti come un paese che scarica i problemi sul debito pubblico oppure che è incapace di innovare sul piano tecnologico così come su quello istituzionale e amministrativo. Perderemmo la fiducia se, per litigiosità o insipienza della politica, finissimo per dare spazio a forze anti sistema e anti europee che porterebbero l’economia al disastro. Certo, come dice Susanna Camusso, si potrebbero fare più investimenti pubblici, ma ciò andrebbe fatto sempre tenendo conto delle compatibilità finanziarie. L’alto debito pubblico e il fatto di avere alle spalle una storia di scarsa affidabilità sul piano finanziario non lasciano spazio per un new deal. E allora la discussione diventa se sia meglio usare quattro miliardi per tagliare la Tasi o per aumentare gli investimenti pubblici oltre quanto è già previsto dal governo. Ponendo al centro la questione della fiducia la risposta appare piuttosto ovvia. Ma comunque rispetto al complesso delle cose fatte dal governo questa è un tema relativamente piccolo che può essere affrontato con una discussione laica e pacata; si possono avere idee divergenti, ma non si giustificano scismi o anatemi.

Per rassegna stampa L’Unità 31/10/2015

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