Il problema dell’Italia non è l’euro, Il Sole24Ore, 1 marzo 2017, Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli

Uscire dall’euro è davvero la carta vincente per l’Italia? Parte dell’elettorato sembra effettivamente pensarlo. Dunque, chi difende la moneta unica deve accettare di discuterne seriamente e in maniera documentata.

Si afferma spesso che i problemi dell’Italia dipendono dall’euro. Malgrado le indubbie difficoltà, l’Eurozona cresce da oltre vent’anni quasi come gli Stati Uniti in termini di Pil procapite, anche se l’Italia è da lungo tempo il fanalino di coda. Molti fenomeni sono accaduti quasi simultaneamente all’avvio dell’euro, dall’ingresso della Cina nel WTO alla rivoluzione digitale. Sembra dunque più corretto dire che l’Italia non ha saputo cogliere le opportunità offerte da questi cambiamenti, nel quadro dell’integrazione europea.

Un’altra affermazione frequente dei partiti no-euro è che sarebbe meglio svalutare il tasso di cambio anziché i salari. Probabilmente, dati gli squilibri che caratterizzano oggi l’Eurozona, se non ci fosse la moneta unica, l’Italia avrebbe già svalutato da tempo. Tuttavia, i possibili benefici della svalutazione vanno messi a confronto con i costi di uscita dalla moneta unica e non vanno sopravalutati. In particolare, non è vero che la svalutazione sia un’alternativa rispetto alla riduzione dei salari. La verità è che la svalutazione è un modo per ridurre il potere d’acquisto dei salari, peraltro in maniera iniqua. Se i sindacati riescono a ottenere l’integrale recupero dell’inflazione, la svalutazione non ha alcun effetto sulle variabili reali dell’economia (esportazioni nette, Pil, occupazione), ma si limita a far aumentare i prezzi. I partiti no-euro fanno invece balenare la possibilità di fare le nozze con i fichi secchi, cioè una svalutazione con effetti benefici e nessun costo. Invece, se i vantaggi sono dubbi, i costi di fuoriuscita dall’euro sono elevatissimi e certi.

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In primis vi è il debito pubblico. Con una ipotetica svalutazione del 30%, il rapporto debito/Pil registrerebbe un balzo fino al 190% dal livello attuale di circa 133%. I partiti no-euro pensano di risolvere questo problema ridenominando il debito nella nuova valuta. Ma la ridenominazione sarebbe considerata alla stregua di un default dalle agenzie di rating e, ciò che più conta, dai mercati finanziari. Il giorno dopo e per molti anni a venire nessuno comprerebbe più titoli del tesoro italiano. L’intero debito in scadenza, oltre al nuovo fabbisogno, (circa 440 miliardi nel 2017) dovrebbe essere quindi finanziato dalla banca centrale, per ammontari che sarebbero un multiplo del totale della base monetaria in circolazione, il che innescherebbe una fiammata inflazionistica, alla stregua di quelle sperimentate dopo guerre o cambi di regime.

In secondo luogo, vi è il problema del debito privato verso l’estero che è circa il 165% del Pil. Qui si pone lo stesso problema che per il settore pubblico. Banche, imprese e anche famiglie potrebbero trovarsi con passività in euro e attivi o redditi in valuta domestica svalutata e ciò potrebbe dare luogo a fallimenti a catena e a tensioni sociali, analoghe ma molto più intense di quelle sperimentate nel 1992 dalle famiglie che avevano contratto mutui in ECU. Anche in questo caso non ci sarebbe un’alternativa rispetto ad un uso massiccio della base monetaria. I salvataggi, in particolare delle banche, consentirebbero forse di preservare il valore facciale del risparmio, ma il suo valore reale verrebbe ulteriormente falcidiato dall’inflazione.

Infine, vi è il dilemma legato ad una vera e propria ‘trappola delle aspettative’. I preparativi per la messa in circolazione di una nuova moneta e l’adeguamento dei sistemi di pagamento richiederebbero vari mesi. Molti non potrebbero essere avviati se non dopo un voto del Parlamento. Nel periodo precedente l’uscita, l’aspettativa, o la quasi certezza, di una svalutazione indurrebbe gli investitori, ma anche i comuni cittadini, a prelevare il denaro dalle banche e a portarlo all’estero. Già oggi la sola prospettiva che un partito anti euro possa vincere le elezioni in un qualunque paese dell’Eurozona sta generando tensioni sugli spread dei titoli sovrani. Se quella prospettiva si consolidasse, l’Eurozona entrerebbe in una crisi potenzialmente molto più grave di quella del 2011, quando nessuno, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, manifestava l’intenzione di uscire. Per quanti ‘piani B’ possano essere inventati per chiudere la banche, vietare le esportazioni di capitale e mantenere la segretezza dei preparativi, non sembra siano disponibili delle soluzioni credibili per ovviare a questo drammatico problema.  Le conseguenze, in termini di distruzione del risparmio dei cittadini e maggiore disoccupazione, sarebbero quindi enormi e i loro effetti nefasti durerebbero per molti anni a venire.

Sarebbe assai più utile e meno costoso affrontare con decisione i problemi di fondo che affliggono l’Italia, in modo da consentirle di sfruttare al meglio le opportunità derivanti dall’integrazione europea all’interno della valuta comune.

lorenzo.codogno@lc-ma.com

@giampaologalli

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