Italexit non risolverebbe nessuno dei problemi dell’Italia – di Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli, 23 febbraio 2017,

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L’Italia di fronte alla sfida dei cambiamenti globali

La crescita dei movimenti populisti e antieuropei non ha risparmiato l’Italia. Quasi tutti
chiedono l’uscita dall’euro, molti chiedono anche l’uscita dall’UE: la seconda è una strada percorribile anche se estremamente complessa, come il Regno Unito sta scoprendo a sue spese in questi mesi. L’uscita dall’unione monetaria creerebbe invece un problema su una scala completamente diversa, con conseguenze negative che si protrarrebbero per molti anni. Inoltre, non risolverebbe i problemi che si vorrebbero risolvere. Trascurando le motivazioni politiche, alcuni commentatori – come gli autori di un recente documento di Mediobanca Securities – sostengono invece che lasciare l’euro sia fattibile e che l’Italia potrebbe perfino trovarsi ad ottenere un piccolo vantaggio di 8 miliardi di euro.[1] Essi forniscono inoltre argomenti tecnici sugli effetti della ridenominazione del debito, sostenendo che tale ridenominazione, se rimandata al futuro, si rivelerebbe troppo costosa e che, quindi, andrebbe adottata il prima possibile. Su questo punto siamo in netto disaccordo.

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L’argomento economico prima di tutto: l’unione economica e monetaria è un grande progetto che ha dimostrato tutta la propria fragilità durante la crisi finanziaria. Molti problemi restano aperti ancora oggi. L’economia italiana ha sperimentato difficoltà dall’avvio dell’euro, e anche durante il processo di convergenza che ha preceduto l’unione monetaria. Questo è innegabile. Non è però chiaro se e in che misura queste performance abbiano a che fare con l’unione monetaria. Molti i fenomeni globali sono accaduti quasi simultaneamente all’avvio dell’euro, a partire dall’ingresso della Cina nel WTO, l’utilizzo estensivo delle supply chain globali, i cambiamenti tecnologici profondi nella comunicazione, nella logistica e in molti altri settori, così come i profondi cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, con le macchine che sostituiscono i lavoratori e la “uberizzazione” dei servizi. Tutti questi fenomeni hanno ben poco a che fare con l’euro. A noi sembra più corretto dire che l’Italia non ha saputo cogliere le opportunità offerte da questi cambiamenti, nel quadro dell’integrazione europea. Se l’euro non è dunque il problema, Italexit non sarebbe la soluzione.

Volontà politica e logica economica

Italexit potrebbe verificarsi per tre ragioni: (1) il prevalere di una volontà politica, ancorché non sostenuta da alcuna logica economica; (2) il protrarsi di risultati economici deludenti, in termini di crescita economica e di sostenibilità del debito pubblico; e (3) la consapevolezza dei precedenti due fattori da parte degli operatori del mercato finanziario, il che potrebbe portare ad un’aspettativa che si autorealizza. Il secondo argomento è a nostro avviso debole, in quanto Italexit probabilmente porterebbe più danni che benefici, e sarebbe quindi molto meglio affrontare invece i problemi di fondo.[2] L’ultimo argomento è chiaramente pericoloso, dal momento che, all’aumentare del rischio percepito di (1) e (2) e al crescere dello spread sui titoli di stato italiani, Italexit potrebbe effettivamente diventare un esito difficilmente evitabile.

La volontà politica può certamente avere un ruolo rilevante, perché non si possono non prendere sul serio le dichiarazioni dei movimenti populisti. Eccone, ad esempio, una del Movimento Cinque Stelle:

“Euro, la rapina del secolo: non è irrevocabile, come ha deciso Mario Draghi. Rompere la gabbia, riappropriarsi della sovranità svenduta a cleptocrati, tecnocrati, oligarchi. Ricostruire dalle macerie l’Europa dei popoli. Chiamando i cittadini ad esprimersi col referendum.”[3]

Altre affermazioni suggeriscono apertamente che Italexit andrebbe di pari passo col default sul debito pubblico.[4] Se queste affermazioni venissero prese sul serio e aumentasse il rischio percepito di vedere il Movimento Cinque Stelle o altre formazioni anti euro al potere, allora quello che oggi è un evento a probabilità estremamente bassa potrebbe trasformarsi in una profezia che si autorealizza, prima ancora che si concretizzi qualsiasi cambiamento politico effettivo.

Nel prossimo paragrafo analizziamo il tema della ridenominazione. Ci occuperemo quindi del tema più generale dell’uscita da un’unione monetaria.

Ridenominare non è una soluzione

Affrontiamo per primo il tema della ridenominazione, perché esso ha recentemente attratto l’attenzione di economisti e policy makers.

Nel lavoro citato, a cura di Mediobanca Securities, viene proposto il seguente argomento. Nel caso di un’uscita dall’euro, il governo italiano non potrebbe ridenominare i titoli emessi dopo il 1 gennaio 2013 con scadenze iniziali superiori ad un anno, perché tali titoli sono soggetti alla clausola CAC (Collective Action Clause), così come è stata definita nel trattato sul Fiscal Compact.[5] Secondo le nostre stime, le obbligazioni nazionali in circolazione soggette alla clausola CAC sono attualmente circa 847 miliardi di euro, pari a circa il 49,5% del debito domestico in circolazione con scadenza originaria superiore a un anno, o il 46,6% del totale delle obbligazioni (vedi Figura 1). Secondo gli autori del paper di Mediobanca, l’Italia potrebbe però ridenominare i titoli emessi prima del 1 gennaio 2013; a seguito dell’uscita dalla moneta unica e di una svalutazione del 30%, lo Stato registrerebbe una perdita pari 280 miliardi di euro sulla porzione di debito che non può essere ridenominata (tra cui le obbligazioni emesse sotto giurisdizione estera e i derivati), e “guadagnerebbe” 191 miliardi di euro sulla quota del debito ridenominata.

Gli autori dello studio di Mediobanca adottano tre assunti che ci paiono fondamentalmente errati:

  • La mera esistenza della CAC non impedisce de iure a uno stato sovrano di ridenominare il proprio debito (sebbene la ridenominazione attivi la CAC). Ciò che importa è la giurisdizione sotto la quale sono stati emessi i titoli, vale a dire quella italiana per tutte le obbligazioni nazionali. Questo dovrebbe portare, quantomeno in teoria, a poter ridenominare tutti i titoli nazionali. [6] Inoltre, si noti come in assenza della ridenominazione una svalutazione del 30% della moneta nazionale produrrebbe un balzo del rapporto debito/PIL fino al 190%, rendendo il default un’opzione estremamente probabile.
  • I derivati si trovano tutti sotto legislazione nazionale, e pertanto, in linea teorica, possono anch’essi essere ridenominati. [7]
  • Il debito denominato in altre valute, che ammonterebbe a 48 miliardi di euro, è soggetto a legislazioni straniere per soli 9 miliardi (bond statunitensi soggetti alla legislazione dello stato di New York e pochi Euro Medium Term Notes, soggetti alla legislazione tedesca, cioè Shuldschein). Anche in caso questo vi sarebbero dunque ampi spazi teorici per effettuare la ridenominazione.

Sotto l’ulteriore assunzione, assai discutibile, che i partner europei consentano all’Italia di ridurre il valore dei titoli comprati dalla banca centrale nell’ambito del suo programma di acquisti, la conclusione degli autori è che Italexit permetterebbe addirittura un guadagno di 8 miliardi di euro.[8] Si tratta di una somma decisamente modesta, ma non è questo il punto. La questione è che questo esercizio dà l’impressione che (a) sia immotivato il timore di un ulteriore aumento del debito italiano a seguito di Italexit e, soprattutto, (b) l’analisi costi/benefici di una rottura dell’euro possa limitarsi alla questione dei costi finanziari e a breve termine per il Tesoro.

Riguardo al primo punto, ci troviamo di fronte a ragionamento chiaramente errato, perché la ridenominazione dei titoli di Stato senza CAC non produce alcun guadagno per lo Stato. Si elimina semplicemente la perdita da svalutazione che si manifesterebbe invece sui titoli che non vengono ridenominati e l’eliminazione di una perdita è ovviamente cosa diversa dall’emersione di un guadagno. Dal lato del passivo del bilancio dello Stato, espresso nella nuova valuta nazionale, si verificherebbe una perdita sulla quota di debito non ridenominata, e nessun cambiamento sulla porzione che verrebbe ridenominata. Pertanto, la ridenominazione porrebbe un limite all’ammontare della perdita, ma certamente non potrebbe dar luogo a un guadagno.

Per conseguire i benefici che gli autori sostengono possano derivare dalla ridenominazione, il governo dovrebbe in effetti disconoscere completamente il debito o quantomeno parte di esso. In tal caso, dal lato delle passività del conto patrimoniale dello Stato si registrerebbe una perdita sulla quota di debito non ridenominata e un guadagno sulla quota che verrebbe disconosciuta.

È inoltre importante ricordare che non rispettare gli obblighi contrattuali nei confronti dei creditori, ivi compreso il pagamento degli oneri nella valuta stipulata, attiverebbe la dichiarazione di insolvenza da parte delle agenzie di rating. [9] È superfluo dire che i problemi legati alla ridenominazione (in termini di reputazione, futura capacità di accesso ai mercati, ecc.) sarebbero aggravati dalla scelta deliberata di un write-off del debito in aggiunta alla ridenominazione stessa.

Figura 1. Debito delle amministrazioni pubbliche: analisi per settori detentori

grafico

Fonte: Banca d’Italia, nostre stime

Sin qui abbiamo considerato il bilancio espresso nella nuova valuta nazionale (diciamo la nuova lira). In alternativa, possiamo guardare al bilancio espresso in euro. In questo caso non si registrerebbe alcun cambiamento sulla parte di debito non ridenominata, e si realizzerebbe effettivamente un guadagno sulla quota (parziale o totale) ridenominata, il cui valore in euro verrebbe diminuito dalla svalutazione della nuova lira. Forse è questo il guadagno che gli autori avevano in mente. Il problema è che, in questo caso, si dovrebbe anche prendere in considerazione il deprezzamento del reddito nazionale e della base imponibile – denominata in euro – che si verificherebbe a seguito della svalutazione della nuova moneta. Ragionando in questi termini, la conclusione è che il rapporto tra il debito pubblico e il PIL (o la base imponibile) è invariante rispetto alla scelta dell’unità monetaria e registrerà sempre un incremento a seguito di una svalutazione.

Le conseguenze pratiche di questo ragionamento sono le seguenti:

  • Non esiste una finestra temporale prima della quale un’uscita dall’euro può essere finanziariamente conveniente, come invece suggerisce il documento di Mediobanca Securities.
  • Se l’Italia dovesse uscire dall’euro, in nessun caso si ritroverebbe con un guadagno di 8 miliardi di euro. In realtà, utilizzando le ipotesi alla base dello studio di Mediobanca – tra le quali una svalutazione della lira del 30% – uscire oggi avrebbe un costo di circa 468 miliardi di lire, vale a dire il valore del debito che, secondo le loro ipotesi, non può essere ridenominato (1.092 miliardi di euro[10]), moltiplicato per l’apprezzamento dell’euro nei confronti della nuova moneta.[11] Il rapporto tra debito pubblico e PIL aumenterebbe di 27 punti percentuali, da 133% al 160%.
  • Pertanto, nel caso di Italexit il peso del debito salirebbe, rendendo molto più probabile un default, ossia un taglio sul valore, ridenominato o non, delle obbligazioni. Risultato questo che potrebbe essere financo voluto, come sembrano suggerire alcune dichiarazioni del Movimento Cinque Stelle.

Una possibile interpretazione dell’idea che una svalutazione possa dar luogo a un beneficio finanziario per lo Stato deriva dalla considerazione che, dopo aver riacquistato la sovranità monetaria, un paese può pagare il proprio debito con la moneta emessa dalla propria banca centrale essenzialmente a costo zero. Al di là delle considerazioni teoriche, si osservi che, se questo fosse vero, il debito pubblico di un paese sovrano non sarebbe mai un onere. Ancor più paradossale è l’implicazione di questo ragionamento secondo cui non costituirebbe un onere neanche il debito contratto in valuta domestica con i non residenti. A titolo d’esempio, l’Italia nel 1992 era un paese sovrano e la maggior parte del suo debito, anche con i non residenti, era denominato nella valuta nazionale. Ciononostante, quel debito era universalmente considerato un problema serio per il governo e per il Paese nel suo complesso.

I costi della ridenominazione

Finora abbiamo accettato l’ipotesi che un paese possa ridenominare il proprio debito estero senza CAC a costo zero. Questa assunzione risulta essere semplicistica per i seguenti motivi.

In primo luogo, non è ovvio che le giurisdizioni straniere riconoscano la cosiddetta Lex Monetae, vale a dire il nostro diritto di ridenominare i titoli. Vi sarebbe quindi il rischio che i giudici stranieri possano impugnare la decisione di ridenominare e quindi chiedere all’Italia di risarcire gli obbligazionisti per le perdite subite.[12]

Una ridenominazione da parte di un grande debitore internazionale, come è l’Italia, avrebbe gravi conseguenze sulla stabilità del sistema finanziario globale, così come sui singoli intermediari o sulle imprese che detengono debito italiano. Tali conseguenze potrebbero verificarsi in aggiunta a quelle associate in letteratura alla disgregazione di una moneta comune (di cui discutiamo nel prossimo paragrafo di questo documento), e cioè:

  • Fallimenti delle banche originati dal panico dei depositanti nel periodo antecedente la decisione (in effetti, quella di ritirare i propri depositi dalle banche nazionali andrebbe considerata come una decisione del tutto razionale da parte dei correntisti).
  • Perdita dell’accesso ai mercati finanziari da parte sia del governo che dei privati.
  • Fallimenti derivanti da passività estere detenute da società private cui non corrispondono equivalenti attivi sull’estero. Le imprese private e le banche potrebbero anche tentare di ridenominare, ma nel farlo sarebbero fortemente scoraggiate dagli effetti reputazionali di una simile decisione.

In un tale scenario è difficile immaginare reazioni “business as usual” da parte dei paesi esteri, sia sotto il profilo finanziario che politico. Un’uscita dell’Italia dall’euro innescherebbe una disgregazione dell’eurozona, e l’Unione europea difficilmente potrebbe sopravvivere. Ogni paese cercherebbe di mettersi al riparo da effetti di contagio e, come ha recentemente dichiarato Mario Draghi, presidente della BCE, il mercato unico scomparirebbe. Politiche beggar-thy-neighbour, come negli anni ‘30, diventerebbero sempre più probabili. Il paese che si trovasse all’origine di una situazione tanto grave difficilmente continuerebbe ad avere un qualche peso nelle questioni internazionali, con effetti che durerebbero a lungo.

Soprattutto, in un simile scenario lo Stato che avesse deciso di uscire perderebbe l’accesso ai mercati finanziari per un lungo periodo di tempo. Questo sarebbe un problema enorme per l’Italia, dato che il Paese ha bisogno di accedere ai mercati per finanziare il proprio deficit di bilancio (stimato in circa 40 miliardi di euro, pari al 2,4% del PIL nel 2016[13]) e, soprattutto, per rifinanziare il suo enorme debito (stimato al 132,8 % del PIL nel 2016). Nel complesso, l’Italia ha raccolto risorse finanziarie per circa 399 miliardi di euro nel 2016 (al netto delle offerte di scambio), e l’importo potrebbe essere nell’ordine dei 440 miliardi di euro nel 2017, a causa di un maggiore quantità di titoli in scadenza. Per eliminare la necessità di accedere ai mercati, l’Italia dovrebbe cancellare il suo intero debito (o rimandare qualsiasi pagamento per molti anni) e mantenere da oggi in poi il bilancio in pareggio. Questo è, naturalmente, uno scenario apocalittico, che implica una dose senza precedenti di austerità e vede un drammatico calo della domanda interna e un enorme aumento della disoccupazione. Eppure, si tratterebbe di un quadro realistico nell’ipotesi che l’Italia esca dall’euro. Per molti anni a venire, gli investitori eviterebbero di comprare le obbligazioni italiane.

Ne concludiamo che la ridenominazione del debito o di parte di esso aggiungerebbe ulteriore elementi di instabilità ad uno scenario catastrofico che si verificherebbe comunque a seguito della decisione di lasciare la moneta unica. Nel prossimo paragrafo vediamo il motivo per cui lo scenario di base sarebbe incredibilmente negativo, passando in rassegna argomenti che non sono nuovi per gli economisti, ma, che data l’importanza politica della questione, meritano di essere portati all’attenzione di un pubblico più ampio.

L’uscita: uno scenario catastrofico

Si può discutere se l’euro sia stata una buona idea o meno. Il dibattito su questo punto è molto aperto, come sempre è stata aperta la discussione tra i sostenitori di cambi fissi e flessibili. Tuttavia, non c’è quasi nessun dubbio sul fatto che, una volta che un paese ha aderito alla moneta unica, uscirne sia molto problematico.[14] In altre parole, i problemi potrebbero insorgere anche prima che una decisione al riguardo venga effettivamente presa.

Dal punto di vista della policy questo è un punto centrale, in quanto suggerisce che anche un governo populista eletto su un programma che prevede l’uscita (ad esempio, il Front National in Francia o il Movimento Cinque Stelle in Italia) potrebbe cambiare il proprio atteggiamento una volta al potere, di fronte all’evidenza dei problemi finanziari che si manifesterebbero. Va peraltro detto che le posizioni politiche dei partiti no-euro potrebbero causare gravi problemi ancora prima del loro effettivo arrivo al potere, dato che i mercati finanziari inizierebbero a scontare immediatamente una simile eventualità.

Nel complesso, questi ragionamenti ci inducono a ritenere che una rottura dell’euro sia un evento non impossibile, ma piuttosto improbabile. È spesso vero che la volontà politica prevale sulla logica economica. Tuttavia, quando i problemi economici diventano drammatici e tangibili, la logica economica stessa può diventare una questione di sopravvivenza politica.

La Grecia ne è un esempio molto chiaro.

Janis Varoufakis ha spiegato in maniera convincente il motivo per cui i problemi potrebbero sorgere molto prima che si attui la decisione di uscire. Citiamo proprio Varoufakis perché è una figura che non può essere sospettata di simpatia per l’establishment europeo e che ha provato, fino all’ultimo momento possibile, a costruire una strategia di uscita per il suo paese.[15] Questo è quanto ha affermato: “Uscire dall’euro significa creare una nuova moneta, che richiederebbe almeno un anno per essere introdotta, per poi svalutarla. Sarebbe catastrofico visto che, con un tale preavviso, gli investitori – e anche i comuni cittadini – cercherebbero di vendere il più possibile i propri beni e di recuperare il proprio denaro prima che avvenga la svalutazione, non lasciando più niente nel Paese”.

In Grecia, nel luglio 2015, un referendum popolare respinse le misure di austerità chieste dalla cosiddetta Troika, scelta che rese molto probabile l’uscita dall’euro anche se questa non faceva parte del programma di governo. A quel punto la crisi finanziaria divenne insostenibile, perché anche i cittadini comuni iniziarono a ritirare i propri depositi e vendere asset greci. Il calo dei prezzi delle attività finanziarie erose il capitale delle banche, rendendo così ancor più necessario e urgente un sostegno dall’estero. Nel giro di pochi giorni, il primo ministro si trovò essenzialmente obbligato ad accettare ciò che era stato respinto dal referendum, al fine di rendere chiaro che la Grecia non avrebbe lasciato l’euro.

La conclusione è che “quando una nazione ha intrapreso il proprio percorso per entrare nell’euro, quello stesso percorso viene meno dopo che l’euro è stato creato, e ogni tentativo di invertire la rotta lungo una via ormai inesistente porterebbe a una rovinosa caduta da un dirupo molto alto.”[16]

Per quanto riguarda le conseguenze internazionali di una simile caduta, Varoufakis prevede aspri conflitti tra le nazioni: “[Una rottura dell’euro] potrebbe addirittura causare una guerra. In ogni caso, le nazioni si scaglierebbero l’una contro l’altra… l’Europa sarebbe ancora una volta la causa dell’affossamento dell’economia mondiale. La Cina ne sarebbe devastata e la ripresa degli Stati Uniti verrebbe meno. Condanneremmo il mondo intero ad una generazione perduta”.

Il punto di Varoufakis, su cui concordiamo, è che gli effetti di contagio, anche da parte di un piccolo paese in uscita dall’euro, sono molto estesi e possono essere gravissimi.

Esistono i piani B?

Per la maggior parte delle persone, le considerazioni formulate in precedenza sono sufficienti ad escludere l’uscita dall’euro come ragionevole opzione politica. Tuttavia, i partiti politici che promuovono l’uscita sostengono che esistano modi di aggirare i problemi, i cosiddetti piani B. Per quanto ne sappiamo, nessuno è stato finora in grado di proporre un vero e proprio piano per uscire dall’euro senza incorrere in costi drammatici.[17] Tuttavia, i partiti no-euro hanno presentato una serie di argomenti che vale la pena discutere in modo più dettagliato.

Segretezza. Alcuni partiti no-euro (ad esempio, la Lega Nord in Italia) sostengono che l’uscita sia fattibile, purché l’intenzione venga mantenuta rigorosamente segreta. La decisione dovrebbe quindi essere presa a sorpresa, una domenica notte, o comunque a mercati chiusi.[18] La segretezza eviterebbe tutti i problemi di panico degli investitori di cui abbiamo detto sopra. Il problema di questa teoria è che non è chiaro come l’intenzione di uscire possa essere mantenuta segreta in una democrazia con una stampa libera. I partiti politici che vogliono lasciare l’euro (compresa la stessa Lega Nord) hanno già intrapreso una campagna contro l’euro e tutti sanno che l’uscita è parte del loro programma. Inoltre, una volta che la decisione politica venisse effettivamente presa, servirebbero diversi mesi per coniare la nuova moneta e distribuirla in tutto il Paese. Inoltre, il sistema dei pagamenti è totalmente integrato nella zona Euro, e pertanto all’annuncio di Italexit seguirebbero enormi problemi di natura tecnica, che con probabilità elevata condurrebbero ad un improvviso blocco delle transazioni per molto tempo – con inevitabile danno per le attività economiche. Sarebbe effettivamente impossibile mantenere un simile piano segreto. E comunque la segretezza, anche nei confronti delle assemblee parlamentari, sarebbe assolutamente incompatibile con il processo democratico.

Democrazia diretta. Altri partiti no-euro (ad esempio il Movimento Cinque Stelle) si posizionano in maniera opposta: le persone dovrebbero essere libere di decidere sull’euro attraverso un referendum. Questo non costituisce, naturalmente, una risposta ai problemi finanziari che si creerebbero, anzi di fatto li renderebbe addirittura peggiori, dato che gli investitori avrebbero ancora più tempo a disposizione per portare i propri beni fuori dal Paese. Per quanto irrazionale, registriamo questa posizione perché, per alcuni partiti no-euro, il mito della democrazia diretta costituisce la soluzione facile ad ogni problema complesso.

Chiusura delle banche. Le banche dovrebbero rimanere chiuse per un po’ di tempo, per impedire ai cittadini di prelevare i depositi o modificare la composizione del loro portafoglio finanziario, come è stato in parte fatto a Cipro e in Grecia. Il problema è che soluzioni come questa possono essere adottate per qualche giorno, ma non per parecchi mesi. Inoltre, la chiusura dovrebbe essere messa in atto molti mesi prima che il governo prenda la decisione di avviare il processo di uscita. Ma una cosa del genere è chiaramente impossibile, dal momento che la stessa chiusura segnalerebbe l’intenzione del governo di uscire dall’euro.

Controlli sui capitali. Al fine di porre un limite alle fughe all’estero, il governo dovrebbe introdurre rigorosi controlli sui capitali. Le autorità dovrebbero proibire gli acquisti di attività estere da parte dei residenti o autorizzarli caso per caso. Non è chiaro come si possa evitare che i non residenti procedano al disinvestimento delle attività domestiche. In ogni caso, molti paesi hanno avuto esperienza di controlli dei capitali per molti anni. L’Italia, ad esempio, ha adottato un regime molto duro nel corso degli anni ’70 e in gran parte degli anni ’80. L’esperienza insegna che i controlli possono rallentare i movimenti di capitali in tempi “normali”, ma non riescono a impedirli. In periodi di crisi, quando gli investitori sentono che i propri beni sono seriamente a rischio, i flussi di denaro si muovono verso l’estero molto rapidamente. In Italia questo è quanto accaduto, per esempio, nel gennaio del 1976, quando, nel giro di pochi giorni, le riserve valutarie del Paese si esaurirono e la banca centrale perse il controllo sul valore del tasso di cambio. La maggior parte dei movimenti di capitali erano nascosti nel saldo di conto corrente, sotto forma di anticipi e ritardi sui pagamenti oppure di sotto e sovra fatturazioni. Vi erano anche massicce esportazioni illegali di banconote. In ogni caso, un sistema di controlli sui capitali richiede una complessa macchina burocratica che non può essere resa operativa in una notte. Inoltre, come nel caso della chiusura delle banche, i controlli dovrebbero essere messi in atto molto prima che la decisione di uscire sia resa pubblica.

Il ricorso alla banca centrale. Il ricorso alla banca centrale è imprescindibile in tutti i piani, o quasi-piani, dei partiti no-euro. L’idea è che questa sia la soluzione al problema del debito pubblico e anche a quello dei debiti privati, in particolare per quegli operatori le cui passività non potrebbero essere ridenominate e per i quali sarebbe necessario un intervento pubblico per evitare il fallimento. Al riguardo, è utile ricordare che il debito degli italiani con non-residenti è stimato in 2.767 miliardi di euro, vale a dire quasi il 165% del PIL.[19] Dato che si tratta di un’informazione irrilevante finché esiste l’euro, non sappiamo quanto di questo debito sia implicitamente coperto, cioè in che misura chi ha debiti verso l’estero detenga anche degli attivi verso l’estero. Tuttavia, certo è che sarebbero molte le banche, le imprese e le persone il cui stato patrimoniale soffrirebbe per via di un disallineamento valutario. Un piccolo esempio di quanto potrebbe accadere è fornito dal caso dei mutui in ECU, detenuti da molte famiglie italiane nel 1992, quando la lira fu svalutata. All’epoca si trattò di un grave problema sociale che diede luogo a una quantità enorme di contenziosi nei tribunali, con i ricorrenti che sostenevano che le banche stessero violando le leggi anti-usura. Tutti questi problemi sarebbero risolti, secondo i partiti no-euro, attraverso la stampa di moneta. La debolezza di questo argomento è che la moneta dovrebbe essere utilizzata come strumento di politica fiscale in un quadro in cui il governo interviene per salvare dal fallimento banche, imprese e persone fisiche. Non è chiaro quale criterio il governo potrebbe usare per offrire questi aiuti, tenuto anche conto che essi dovrebbero essere erogati immediatamente al fine di evitare i fallimenti a catena. Inoltre, ancora una volta, i mercati potrebbero anticipare il problema del disallineamento valutario e bloccare la concessione di credito alle banche o alle imprese interessate al problema. Di nuovo, le difficoltà si presenterebbero quindi molto prima dell’effettiva attuazione della decisione di uscita. Il ricorso alla creazione di moneta è inoltre ritenuto necessario dai partiti no-euro per evitare che il governo finisca in bancarotta (si veda oltre).

Inflazione e tassi di interesse. Uno dei leitmotiv dei difensori dell’euro è che l’uscita di un paese come l’Italia causerebbe alta inflazione e tassi di interesse elevati, con effetti negativi sui percettori di rediti fissi e sui mutuatari. Qui, i no-euro non prevedono un piano B per evitare il problema. Semplicemente ne negano l’esistenza, adducendo casi in cui la svalutazione di una valuta importante, come il dollaro o lo stesso euro, non è stata associata a un aumento d’inflazione. Questi esempi non colgono il punto per due motivi. In primo luogo, la svalutazione in una piccola economia aperta con importazioni rigide di materie prime ha un impatto molto maggiore sui prezzi che una svalutazione in un paese come gli Stati Uniti. In secondo luogo – e soprattutto – l’inflazione aumenterebbe giocoforza, a causa dell’uso della banca centrale per monetizzare il debito pubblico e per cercare di evitare fallimenti a catena nel settore privato. Ancora una volta, tutte queste attività verrebbero anticipate dai mercati finanziari, ponendo in tal modo ulteriori pressioni al rialzo sui tassi d’interesse molto prima della effettiva uscita di un paese dall’euro.

La conclusione è che: (a) al meglio delle nostre conoscenze, nessun serio “piano B” è mai stato elaborato, e (b) gli argomenti addotti dai partiti no-euro sono debolissimi e non possono convincere una persona ragionevole che l’uscita non sarebbe un evento catastrofico.

Il mito della sovranità monetaria.

Un’obiezione frequente alle nostre precedenti conclusioni è che lo status quo è talmente insopportabile che per molti cittadini sarebbe meglio attraversare un breve periodo di caos rispetto al mantenimento della situazione attuale, con alta disoccupazione e lavori precari o sottopagati. Si argomenta che, se dovesse riconquistare la sovranità monetaria, l’Italia sarebbe presto in grado di offrire migliori condizioni di vita alla maggioranza dei propri cittadini. Questa idea si basa su concetti che hanno poco a che vedere con il pensiero scientifico e, in particolare, con la disputa di lunga data tra tassi di cambio flessibili contro fissi. Così, si può essere d’accordo con Milton Friedman sulla superiorità di sistemi di cambi flessibili, e comunque contestare la maggior parte degli argomenti che vengono messi in campo da parte dei no-euro. Si può anche pensare, sempre seguendo Friedman, che l’euro sia stata una cattiva idea e comunque non essere d’accordo con gli argomenti addotti dalla mitologia della sovranità monetaria. Queste distinzioni sono importanti perché, al fine di sostenere che valga la pena di sopportare il caos insito nel processo di uscita e le sue conseguenze, occorre rappresentare un mondo post-euro come una sorta di Nirvana, il che non è mai stato nella mente di Milton Friedman o di qualsiasi altro studioso serio. Consideriamo di seguito alcuni dei principali argomenti dei no-euro.

Svalutazione e salari reali. Uno degli argomenti principali ha a che fare con l’effetto delle svalutazioni sui salari reali. Viene ripetuto ossessivamente che “con l’euro l’Italia può ritrovare la competitività soltanto con la svalutazione interna, vale a dire una riduzione dei salari, mentre esiste una soluzione semplice che consiste nella svalutazione del tasso di cambio”. Questa è una “fake news” molto efficace perché suggerisce che, tramite una svalutazione, un’economia possa recuperare competitività a costo zero. Allo stesso tempo, trasmette l’idea velenosa che l’euro sia stato creato proprio per svalutare il lavoro. Questo argomento trascura che un deprezzamento esterno ha la conseguenza desiderata di incrementare le esportazioni nette e il PIL solo nella misura in cui esercita un effetto di compressione del potere d’acquisto dei salari. Se i salari sono completamente indicizzati o se i sindacati riescono ad evitare perdite di potere d’acquisto dei lavoratori, la svalutazione non ha alcun effetto sulle variabili reali, come esportazioni e PIL, e modifica solamente il livello dei prezzi. Quindi, per dire le cose correttamente si dovrebbe affermare che, prima dell’euro, i paesi potevano recuperare competitività attraverso la riduzione dei salari reali ottenuta tramite lo strumento ingannevole della svalutazione esterna, mentre, con l’euro le imprese e il governo devono trattare con i lavoratori. Questo punto è stato chiarito molto bene in un famoso articolo dallo stesso Milton Friedman.[20] Una svalutazione esterna è come un cambiamento dell’ora legale, mentre una svalutazione interna equivale a costringere ogni individuo a cambiare le proprie abitudini, andare in ufficio un’ora prima, pranzare un’ora prima, ecc. La differenza è abbastanza piccola, anche se, com’è noto, Friedman pensava che fosse più semplice cambiare l’ora legale, e per questo motivo preferiva i tassi di cambio flessibili.

“Mercantilismo tedesco über alles”. Un altro argomento ingannevole dei partiti no-euro nei paesi periferici è che l’euro sarebbe uno strumento di una sorta di nuovo imperialismo tedesco. La narrazione è che la Germania ha voluto l’euro per evitare svalutazioni da parte dei paesi periferici e per accumulare un enorme surplus sulle partite correnti. Lo scopo sarebbe quello di generare una depressione nei paesi vicini, una classica politica beggar-thy-neighbor, in modo da diventare la potenza dominante della regione. In questo contesto, le istituzioni europee non sarebbero altro che uno strumento per l’affermazione degli obiettivi tedeschi. Riconquistando la sovranità, i paesi sarebbero dunque liberati dalla dipendenza dalla Germania. Questa narrazione va contro la storia. È vero che in un sistema cooperativo ideale, la Germania sosterrebbe di più la sua domanda interna per ridurre il surplus. Tuttavia, è falso che segua politiche mercantiliste. Al contrario, la Germania ha sempre puntato su una moneta forte (un marco forte prima e poi un euro forte), che è l’esatto opposto del mercantilismo. Alla nascita dell’euro, Germania e Italia erano simili in termini di (alto) PIL pro capite e (bassi) tassi di crescita. La Germania ha attuato riforme profonde ed è riuscita a mantenere un tasso d’inflazione coerente con l’obiettivo della BCE, di poco al di sotto del due per cento. Altri paesi, tra cui l’Italia, hanno sperimentato un tasso d’inflazione più alto e sono rimasti indietro in termini di produttività (oltre ad aver aumentato la tassazione sul lavoro fino al 2011), dando così luogo a quelle performance economiche asimmetriche con cui dobbiamo fare i conti oggi. Va inoltre ricordato che la Germania non ha certo promosso, ma ha accettato l’unione monetaria e lo ha fatto per ragioni politiche (costruire una Germania europea, in alternativa all’ipotesi di un’Europa tedesca), in un contesto in cui tutte le istituzioni economiche tedesche avanzavano argomenti contrari all’UEM e alla partecipazione di paesi come l’Italia e la Grecia, che avevano un track record piuttosto debole in termini di stabilità macroeconomica.

“Prima dell’euro, i singoli paesi godevano di sovranità monetaria”. Questa idea, semplicemente, non è corretta. Prima dell’euro, la politica monetaria in Italia era essenzialmente dominata dalle decisioni delle principali banche centrali – in particolare la Bundesbank – e dai sentimenti alternanti nei mercati finanziari. Uno dei motivi alla base della decisione di costruire un’unione monetaria è stato il tentativo di recuperare un po’ di controllo sulla politica monetaria, attraverso la condivisione del processo decisionale con altri partner dell’Eurozona. In effetti, la politica monetaria accomodante attuata oggi in Europa da parte della BCE è adeguata per l’area dell’euro nel suo insieme e sarebbe impensabile senza l’unione.

“Prima dell’euro, i singoli paesi godevano di stabilità e crescita”. Questo invece è un mito per due motivi. In primo luogo, l’Italia non godeva di stabilità: in tempi diversi, inflazione elevata e variabile, aumento del debito pubblico e ripetute svalutazioni erano sintomi di una società incapace di trovare un equilibrio, con conseguenti gravi problemi sociali. In secondo luogo, la crescita è diminuita in tutto il mondo nel corso degli ultimi 15-20 anni, specie nei paesi con crescita bassa o nulla della produttività dei fattori. Per crescere di più non c’è alternativa rispetto all’aumento della produttività attraverso riforme e innovazione. L’idea che la sovranità monetaria abbia un impatto positivo sulla produttività non ha alcun fondamento né nella teoria economica, né nel senso comune.

“Con la sovranità monetaria, un paese non può fare default”. C’è un fondo di verità in questa affermazione, dato che uno stato sovrano può pagare il proprio debito pubblico stampando moneta. Tuttavia, si tratta solo di una piccola parte della storia, per due motivi. In primo luogo, anche uno stato sovrano può fare default quando l’inflazione è così alta che la stampa di nuova moneta riduce il signoraggio, com’è avvenuto in molti paesi dopo eventi traumatici come guerre o cambi di regime. In secondo luogo, e soprattutto, la monetizzazione del debito non è una scelta priva di costi economici e sociali. Tali costi sono rappresentati essenzialmente dalla tassa da inflazione, che è particolarmente ingiusta in quanto gli individui benestanti possono evitarla attraverso appropriati investimenti, mentre i cittadini meno abbienti finiscono per rimetterci. I populisti no-euro sono generalmente contrari alle tasse, che vedono come imposizioni bizzarre originate dalle perversioni degli eurocrati. Tuttavia, ciò che propongono come soluzione implica a ben vedere l’imposizione di una tassa unanimemente considerata come una delle più inique. Come spesso accade, costoro vivono in un mondo fantastico in cui non esistono risorse scarse o trade-off e i benefici possono essere ottenuti senza alcun costo.

Va infine osservato che Italexit si risolverebbe anche nell’uscita dall’Unione Europea. A meno che non cambi l’architettura europea, uscire dall’Unione Monetaria implicherebbe in automatico uscire dall’UE e dunque dal mercato unico. Tutto questo aggraverebbe le implicazioni economiche e politiche, già di per sé assai gravi, dell’uscita dall’euro.

Conclusioni

L’euro è irrevocabile. Tuttavia, sappiamo che sarebbe sbagliato darlo per scontato. Italexit potrebbe ancora verificarsi come risultato di un forte peggioramento nelle finanze pubbliche e nelle performance economiche, in combinazione con scelte politiche sbagliate e turbolenze dei mercati finanziari. Si tratterebbe di un errore enorme. Sarebbe assai più utile e meno costoso affrontare i problemi di fondo che affliggono l’Italia, migliorandone il potenziale di crescita e la solidità finanziaria in modo da consentirle di sfruttare al meglio le opportunità derivanti dall’integrazione europea.

Sarebbe inoltre sbagliato ritenere che il processo di uscita dell’Italia o di un qualsiasi altro Stato membro possa essere un processo semplice, valutabile con una banale analisi costi-benefici. Persino Roger Bootle, uno dei principali teorici anti-euro, ha riconosciuto che l’uscita è l’inverso del processo utilizzato per la costruzione e questo non la rende affatto facile: “sarebbe come cercare di ricomporre una frittata”.

Nell’eventualità di un’Italexit, ridenominazione e default diverrebbero estremamente probabili, portando a una serie di effetti ed esternalità negative nell’economia. Basti considerare che, con una svalutazione del 30% rispetto all’euro, il rapporto debito/PIL balzerebbe al 190%.

Quindi, un’Italexit non risolverebbe nessuno dei problemi che dovrebbe affrontare secondo i suoi sostenitori. Produrrebbe invece una pericolosa instabilità finanziaria. Anche solo considerare l’uscita una soluzione praticabile, come parte di un programma politico, implicherebbe il rischio di costruire una profezia che si autorealizza. Le conseguenze economiche, sociali e politiche sarebbero enormi e i loro effetti durerebbero per molti anni a venire.

[Traduzione del testo pubblicato sul sito EUROPP della  London School of Economics e su Luiss SEP; in via di pubblicazione su: “Unione Europea. 60 anni e un bivio”, a cura di Luigi Paganetto]

[1] “Re-denomination risk down as time goes by”, Antonio Guglielmi, Marcello Minenna, Javier Suárez, Carlo Sugnani, Mediobanca Securities, 19 gennaio 2017.

[2] Si veda ad esempio il discorso di Mario Draghi “Sicurezza attraverso l’unità: rendere l’integrazione effettiva per l’Europa” alla conferenza congiunta di BCE e Banka Slovenije, in occasione del 10° anniversario dell’adozione dell’euro, a Lubiana, 2 febbraio 2017: “[…] Così, per tutti questi motivi, dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo ottenuto dall’integrazione. Questo non significa che dobbiamo essere ciechi davanti alle sue sfide, o ai deludenti risultati economici degli ultimi anni. Abbiamo bisogno di recuperare il mercato unico come agente di crescita e fare meglio nel sostenere gli svantaggiati. Ma dobbiamo anche essere chiari: staremmo peggio di oggi, sia economicamente che politicamente, se non avessimo seguito questa strada”.

[3] Articolo “Comanda il popolo, non Draghi”, di Elio Lannutti sul blog del M5S (www.beppegrillo.it), 7 febbraio 2017.

[4] Incipit di una lettera di Beppe Grillo e Manlio Di Stefano del MoVimento Cinque Stelle indirizzata al presidente dell’Ecuador Rafael Correa, pubblicata il 26 gennaio 2017, sul loro blog “Quando divenne Presidente, Lei ereditò un paese in macerie per il debito estero e nel 2006 decise di non continuare ad uccidere la sua popolazione, considerando persone non grate i rappresentanti della Banca Mondiale e del FMI; imponendo poi un audit sul debito che ne certificò l’immoralità e le irregolarità manifeste da parte degli istituti finanziari nord-americani ed europei.

Quando noi andremo al Governo prenderemo a modello queste Sue parole nei futuri rapporti con la Troika europea e del FMI: – Abbiamo degli obblighi nazionali urgenti. E noi poniamo gli obblighi nazionali prima degli obblighi internazionali. Al momento giusto se potremo li rispetteremo, ma la nostra priorità è molto chiara: prima la vita e dopo il debito. La burocrazia internazionale corrotta e incompetente dovrà rispettare il nostro paese – “.

[5] Più in dettaglio, una Collective Action Clause (CAC, clausola di azione collettiva) permette a una maggioranza di obbligazionisti di accettare una ristrutturazione del debito e di far sì che essa sia giuridicamente vincolante per tutti i detentori delle obbligazioni, compresi quelli contrari alla ristrutturazione. In conformità col trattato che istituisce il meccanismo europeo di stabilità, tutte le obbligazioni emesse dagli Stati membri della zona euro con scadenza superiore a un anno, emessi dopo il 1 gennaio 2013, hanno una CAC obbligatoria.

[6] Anche se una cosa del genere sarebbe considerata come un default, con gli annessi problemi nelle giurisdizioni estere (cfr. pag. 6).

[7] Si veda ad esempio l’audizione parlamentare di Maria Cannata, Indagine conoscitiva sugli strumenti finanziari derivati, Camera dei Deputati, VI Commissione Finanze, 10 febbraio 2015, in cui si afferma “…per l’operatività̀ con la Repubblica, in particolare, si è avuto cura di redigere un contratto standard in linea con i criteri guida del mercato, ma soggetto al diritto italiano, con particolare riferimento al codice civile e alla disciplina delle obbligazioni contrattuali. Questa specificità̀ è particolarmente significativa, in quanto rappresenta una tutela di grande rilevanza nell’eventualità̀ di contenziosi.”

[8] Per raggiungere questa conclusione sono necessarie altre ipotesi discutibili analizzate in Alfredo Macchiati: “Italexit e l’insostenibile leggerezza del rapporto Mediobanca”, www.firstonline.it, 8 febbraio 2017.

[9] “Il piano sul debito della Le Pen minaccia un massiccio default, dicono le agenzie di rating”, Financial Times, 9 febbraio 2017.

[10] Nel documento di Mediobanca, questa è la somma delle loro stime di: obbligazioni non-CAC (902 miliardi di euro), obbligazioni acquistate in forza del QE che non possono essere ridenominate (105 miliardi), perdita di MTM sui derivati (37 miliardi), obbligazioni di diritto estero (48 miliardi).

[11] Si assume che la lira venga svalutata del 30%; il corrispondente apprezzamento dell’euro nei confronti della lira è quindi del 42,8%. In alternativa, si potrebbe prendere in considerazione un apprezzamento del 30% dell’euro (che implica un deprezzamento del 23% della lira); in questo caso la perdita sarebbe pari a 327 miliardi di dollari, il 19% del PIL.

[12] Ad esempio, un lavoro del dipartimento legale della BCE argomenta che non esiste un modo legale per uscire dall’euro, il che potrebbe comportare che i titoli emessi in euro includano una clausola implicita di irreversibilità. “Withdrawal and expulsion from the EU and EMU, some reflections” ECB legal working paper series no.10, December 2009.

[13] A meno che, naturalmente, il default non avvenga anche sul flusso dei pagamenti degli interessi.

[14] Le argomentazioni di questa sezione attingono ad una ormai vasta letteratura; citiamo per tutti: Barry Eichengreen, “The euro: Love it or leave it?” VoxEu.org 17 novembre 2007; Willem Buiter: “Greece and the Eurozone: Political leaders should get off their high horses”, VoxEU.org, il 20 febbraio 2012.

[15] Intervista a Janis Varoufakis, http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=21199, 3-02-2016.

[16] Conversazione di Varoufakis con importanti accademici mentre Syriza si disgrega e vengono convocate le elezioni in Grecia, University of Sussex, 27 August 2015, http://www.sussex.ac.uk/broadcast/read/31632.

[17] Neanche il pezzo di Roger Bootle “Leaving the Euro: A Practical Guide”, Wolfson Price version, 29 May 2012.

[18] Si veda ad esempio “Oltre l’euro”, e-book di Claudio Borghi Aquilini, disponibile su www.bastaeuro.it, 2017; e “Il tramonto dell’euro” di Alberto Bagnai, Imprimatur, 2012.

[19] Banca d’Italia, International Investment Position: Liabilities, Balance of Payment and International Investment position, 19 gennaio 2017 (i dati fanno riferimento a settembre 2016).

[20] “The Case for Flexible Exchange Rates”, Milton Friedman, pubblicato in Essays in Positive Economics, University of Chicago Press, 1953.

Link alla versione inglese, London School of Economics

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