2011-2012, sull’orlo del baratro. Una checklist per un piano B

Nei primi mesi del 2012, malgrado gli interventi del governo Monti, si temeva ancora una rottura dell’euro. Provai allora a chiedermi cosa si sarebbe dovuto fare per gestire un scenario di crisi, minimizzando i danni.

Ne venne fuori questa checklist di cose da fare e qualche considerazione per nulla incoraggiante sulla possibilità di evitare danni davvero molto gravi. Spero che di questa checklist non ci sia mai bisogno. Ma ciò che succede nel panorama mondiale –  Nord-Africa, Medio Oriente e Ucraina – e in Grecia mi induce a un po’ di cautela. Forse questa lista di cose da fare in caso di rottura può aiutare a convincere qualcuno che non vale la pena di rischiare. Troppe cose potrebbero andare storte e sfuggire completamente al controllo delle autorità.      

Gli scenari della rottura

Gli scenari possibili e i provvedimenti di emergenza da assumere sono diversi a secondo delle modalità che potrà assumere la rottura. Ad esempio, fa molta differenza se la Germania esce dall’euro e torna al DM, oppure se i singoli paesi in difficoltà tornano ciascuno alla propria moneta, oppure ancora adottano un euro 2, come sembrava nelle intenzioni del piano tedesco proposto alla fine del 2011.

Le diverse configurazioni geografiche della rottura hanno diverse implicazioni non solo sotto il profilo economico-finanziario (denominazione valutaria di debiti e crediti fra paesi), ma anche in termini politici e di possibilità che sopravviva un minimo di cooperazione fra i paesi europei e si eviti, ad esempio, la reintroduzione di dazi commerciali. La rottura può avvenire per decisione unilaterale di alcuni paesi oppure a seguito di accordi politici bilaterali o multilaterali, cui possono fare seguito dei trattati che sostituiscano o integrino i Trattati dell’attuale Unione Europea.

Le modalità della rottura (per decisione unilaterale o a seguito di accordi) e la sua configurazione geografica sono le variabili chiave su cui occorre una riflessione preliminare volta a definire una strategia politica.

Probabilmente, lo scenario meno grave per noi è quello in cui la Germania esce dall’euro e adotta il DM (o un nuovo euro), eventualmente seguita da alcuni paesi satelliti (Olanda, Austria, Finlandia). Gli altri paesi, compresa la Francia, rimangono nell’euro che continuerebbe a essere governato dalla BCE (con i necessari aggiustamenti di governance). Si tratta tuttavia di uno scenario assolutamente improbabile. La Francia non accetterebbe per motivi di collocazione geopolitica e perché rischierebbero di riprodursi gli stessi problemi che abbiamo ora, con la Francia al posto della Germania in posizione centrale. Inoltre la Francia rischierebbe di essere trascinata nella crisi dei paesi periferici.

La Francia potrebbe essere dunque tentata di giocare la carta di rimanere con la Germania. Tuttavia nel fare questo si assumerebbe dei rischi notevoli perché subirebbe la svalutazione dei paesi periferici e rischierebbe di non essere in grado di reggere una politica monetaria che a quel punto sarebbe dominata dalla Bundesbank. Rischierebbe quindi di essere soggetta ad attacchi speculativi, come avvenne nel luglio 1993, in un contesto in cui era la Bundesbank il pilastro del sistema monetario europeo.

Queste considerazioni suggeriscono che, nel caso in cui la Germania decidesse di uscire, anche la Francia tornerebbe alla propria valuta.

In ogni caso, in ciascuno di questi due sottoscenari (la Francia esce con la Germania oppure la Francia esce dall’euro e adotta un nuovo Franco), sarebbe impossibile dire che l’euro e la BCE sopravvivono con la sola partecipazione dei paesi periferici. Un’unione monetaria (il cosiddetto euro 2) fra Italia, Spagna, Grecia e forse Irlanda e Portogallo non avrebbe alcuna giustificazione politica o economica.

Un’eventuale decisione della Germania di uscire dall’euro comporterebbe dunque verosimilmente la sparizione dell’euro e la perdita di ruolo della BCE.

Lo scenario peggiore per noi è quello in cui alcuni paesi periferici escono dall’euro, ma l’euro continua a essere la valuta della Germania e di alcuni altri paesi a essa vicini. In questo caso, verremmo additati come i responsabili della rottura e sarebbe più difficile ridenominare in lire i nostri debiti in euro nei confronti di operatori non residenti.

Ovviamente, il problema della denominazione dei crediti e debiti si pone sia nei confronti di operatori di paesi dell’ex-unione monetaria sia nei confronti del resto del mondo. Se l’euro continuasse ad esistere, ad esempio come valuta di un gruppo di paesi forti attorno alla Germania, un BTP detenuto da un fondo americano dovrebbe essere pagato in euro. Il governo italiano potrebbe decidere diversamente.  Questa decisione sarebbe però un sostanziale default e, come tale, porrebbe problemi molto seri non solo di tipo giuridico, ma anche nei rapporti economici e politici con gli Stati Uniti. Se invece l’euro cessasse di esistere, non vi sarebbero più transazioni in euro e non vi sarebbe più un valore di conversione rispetto a valute terze come il dollaro. In questo caso sembra meno difficile argomentare che l’investitore ha diritto ad avere nuove lire svalutate. Non è tuttavia affatto ovvio che questo argomento regga di fronte a un tribunale americano. I ricorrenti potrebbero forse argomentare che continuerebbe ad esistere un euro sintetico, così come prima dell’euro esisteva l’ECU, come paniere di valute. La questione è fra le tante da approfondire, ma a questo stadio si può osservare che l’ECU sarebbe comunque svalutato rispetto a un eventuale euro adottato dai paesi forti. E dunque il debito estero dell’Italia (e degli altri paesi periferici) risulterebbe meno oneroso in questo scenario (sparizione dell’euro) che nel caso dello scenario in cui l’euro rimanesse come valuta effettiva dei paesi forti.

La conclusione di policy sembra essere la seguente. Occorre lavorare a livello politico e diplomatico affinché, nell’ipotesi che si giunga a tanto, sia la Germania a dichiarare l’intenzione di uscire dall’euro. E conviene mantenere un asse forte con la Francia per evitare che Germania e Francia (con altri paesi minori) rimangano nel vecchio euro (lo scenario peggiore) oppure adottino un nuovo euro. In sostanza, nel caso in cui la Germania decidesse di svincolarsi dall’unione monetaria con i paesi periferici, lo scenario meno negativo sembra essere quello in cui l’euro cessa di esistere.  Per i motivi detti a proposito della posizione della Francia, questo sembra anche essere lo scenario più probabile. Va detto che questa non sarebbe una posizione anti-europea, perché in uno scenario di uscita dall’euro dei paesi cosiddetti periferici, è difficile immaginare che sopravviva qualcosa dell’attuale Unione Europea, con la sua architettura giuridica, politica e istituzionale. Né avrebbe molto senso sostenere che l’Unione Europea e l’Unione Monetaria rimangono in vita per un sottoinsieme di paesi in attesa che si creino le condizioni per la riammissione degli altri. Il dramma della rottura avrebbe conseguenze permanenti o comunque difficilmente reversibili.        

Alcuni problemi comuni ai diversi scenari

Qualunque sia lo scenario politico e diplomatico in cui si consuma la rottura, occorre fare attenzione ad alcune questioni cruciali.

  1. Introduzione dei controlli valutari. Nel momento in cui la decisione della rottura diventasse di dominio pubblico, la prima cosa da fare sembrerebbe essere la reintroduzione del divieto di esportare capitali, nonché il divieto di detenere valuta. Ciò non avrebbe alcun effetto benefico sullo spread dei titoli pubblici, anzi potrebbe aggravare la situazione perché genererebbe il panico fra gli investitori. Il problema dello spread va affrontato con altri strumenti (si veda oltre). Il senso delle misure che qui si propongono è quello di evitare che le banche italiane perdano la base di depositi, o anche che i depositi in euro (convertendi in nuove lire) vengano convertiti in valute estere (franchi svizzeri, dollari ecc.). Va cioè evitato il rischio che nel momento in cui si decreta (vedi oltre) che tutti i rapporti di debito e credito fra residenti sono convertiti in nuove lire le banche si trovino con depositi in valuta che si apprezzano.   L’esperienza degli anni ‘70 dimostra però che i controlli valutari sono molto complessi e imperfetti. Non basterebbe dunque un decreto. Occorrono un apparato amministrativo abbastanza sofisticato, controlli efficaci e sanzioni.

  2. Bank holiday. Probabilmente è necessario chiudere le banche per qualche giorno. Ciò per evitare che nelle more dell’applicazione delle nuove misure dirigiste gli operatori siano comunque in grado di spostare i capitali all’estero o di cambiarne la denominazione. La chiusura delle banche è una misura molto pesante, che può avere conseguenze molto gravi. Occorre quindi riflettere sulla possibilità di misure parziali o di eccezioni. Ad esempio, si potrebbe dire che i prelievi sono possibili ma per non più di mille euro al mese. Oppure che i pagamenti all’estero sono possibili solo a fronte di opportuna documentazione doganale e salvo sanzioni nel caso in cui emergessero fatturazioni false o sovradimensionate.

  3. Definizione dei rapporti da convertire in lire. Occorre un decreto che definisca cosa viene convertito in nuove lire. Questa operazione dovrebbe essere relativamente semplice per quello che riguarda i rapporti fra residenti. Verrebbero quindi trasformati in lire tutti i rapporti di dare avere di famiglie, banche, imprese e pubbliche amministrazioni residenti con altri operatori residenti.

  4. Rapporti con non residenti. Molto più complessa è la definizione della denominazione valutaria dei rapporti con non residenti. Verosimilmente, le passività dello Stato verso non residenti devono essere ridefinite per evitare che aumenti il rapporto debito/Pil. Questo punto va però verificato attentamente sotto il profilo sia economico sia legale. Una considerazione che si può fare è che la quota di debito pubblico detenuta da non residenti sta calando rapidamente e si attesta oggi attorno al 30%. Se la lira svalutasse, poniamo, del 30%, il valore del debito aumenterebbe del 9%. Si tratterebbe di una aumento considerevole, che ci eviterebbe però controversie legali e tensioni politiche di notevole intensità.

  5. Passività ufficiali. Nella lista delle passività ufficiali su cui occorre una decisione vi sono i debiti verso la BCE e le altre banche centrali europee. Nella misura in cui sono corrette le valutazioni di Hans Werner Sinn su Target 2, si tratta di valori assolutamente ingenti.

  6. Passività ufficiali verso paesi terzi. Vanno altresì definiti i rapporti con le autorità o fondi sovrani di paesi terzi. Considerazioni sia economiche che politiche suggeriscono che il trattamento di questi soggetti terzi possa essere diverso da quello dei soggetti comunitari. Il mantenimento del valore in euro (o in euro sintetico, tipo Ecu) potrebbe essere motivato dalla considerazione che le quantità in gioco non sono tali da giustificare tensioni politiche con paesi (Stati Uniti, Cina ecc.) che nulla hanno a che fare con la crisi dell’euro e che possono essere molto utili per aiutare l’Italia in una fase comunque difficilissima.

  7. Debiti privati verso non residenti. Per quanto riguarda i rapporti fra residenti privati (banche, imprese, famiglie) e non residenti (quantomeno quelli comunitari), sembra inevitabile che vi sia una ridefinizione delle passività. Altrimenti alcuni operatori, con passività in euro e attivi o ricavi in lire, potrebbero non reggere. Qui il rischio principale è che non reggano alcune banche fortemente esposte sull’estero. Tuttavia, vi possono essere operatori che sono perfettamente in grado di sostenere l’onere, ad esempio perché hanno attivi o ricavi in valuta che rappresentano un matching sufficiente. Questi operatori possono preferire di mantenere buoni rapporti con i finanziatori esteri. In molti casi tali finanziatori sono le holding con sede a Londra, Lussemburgo ecc. Si può quindi ragionare sull’ipotesi di consentire ai singoli operatori di derogare alla conversione forzosa. Per evitare un effetto reputazionale troppo forte sui soggetti che non derogano, la deroga potrebbe concessa in via eccezionale da una qualche autorità nazionale, ad es. il Ministero dell’Economia.

  8. Le nuove lire. Ovviamente occorre mettere rapidamente in circolazione le nuove lire. Il (breve) periodo di chiusura delle banche dovrebbe servire, tra l’altro, a rifornire le banche di banconote e monete in lire. E’ evidente tuttavia che, in uno scenario di rottura, non ci sarebbe il tempo materiale per produrre e distribuire le nuove banconote. Va quindi trovata una soluzione tecnica transitoria. Una possibilità è quella che fu adottata nel caso della rottura dell’unione monetaria fra la Repubblica ceca e la Slovacchia. La banca centrale appone un timbro sulle banconote in euro e comunque ne introduce una lieve modifica in modo che le nuove banconote siano chiaramente distinguibili da quelle in euro. Una possibilità è forse anche quella di far fare questo lavoro alle banche.

  9. Le funzioni di central banking. Devono essere riattivate tutte le funzioni classiche di banca centrale a livello nazionale. In particolare è essenziale che la Banca Centrale sia messa rapidamente in grado di soddisfare i fabbisogni di liquidità delle banche e del Tesoro e che funzioni il sistema dei pagamenti.

  10. Il tasso di cambio. Occorre fissare il tasso di cambio delle nuove lire. Probabilmente vanno fissati due diversi valori: un valore che definisce a quante lire ha diritto chi ha un asset in euro o chi deve ricevere uno stipendio o un pagamento denominato in euro. Chiamiamo questo il tasso di conversione.  Un diverso valore è il tasso di cambio con valute terze, incluso lo stesso euro (qualora l’euro sopravviva). Chiamiamo questo il tasso di cambio o valore esterno della moneta. Il primo è un valore fondamentalmente convenzionale che va fissato con l’obiettivo di facilitare l’adeguamento alla nuova realtà da parte della popolazione ed evitare fenomeni di confusione monetaria o di speculazione del tipo di quelli, reali o percepiti, che furono denunciati nella fase di avvio dell’euro. La soluzione più semplice sembra essere quella del cambio 1 a 1. Quindi un deposito bancario di 1.000 euro dà diritto a ritirare 1.000 lire, un contratto di lavoro che stabilisce uno stipendio di 1.500 euro dà diritto a un pagamento di 1.500 lire. Analogamente, alla scadenza di un titolo di Stato con valore nominale di 100 euro lo Stato accrediterebbe 100 lire. Un tasso di conversione 1 a 1 dovrebbe minimizzare i problemi di adeguamento della popolazione e minimizzare fenomeni speculativi sui prezzi legati allo switch. Questo punto è importante perché verosimilmente la rottura dell’euro comporterebbe comunque un periodo di inflazione elevata, a causa della svalutazione del valore esterno della lira. Naturalmente si possono fare anche scelte diverse: ad esempio, si potrebbe stabilire che un euro si converte in un multiplo o anche un divisore in termini di lire. In linea teorica, un euro potrebbe essere convertito in 1000 lire o anche in 0,1 lire. Si potrebbe anche dire che un centesimo di euro vale una lira e dunque un euro vale 100 lire. Posto che vanno evitati multipli o divisori non decimali, che generano confusione e si prestano a fenomeni speculativi (arrotondamenti), la scelta deve essere basata su considerazioni che hanno a che fare più con la psicologia di grandi masse di persone che con valutazioni di carattere economico.

  11. Il valore esterno della lira. Tutt’altro ragionamento dovrebbe ispirare le scelte riguardo al valore esterno della lira. Sembra inevitabile che questo valore sia destinato a subire un notevole deprezzamento. La questione è se il deprezzamento viene lasciato al mercato o viene in qualche modo guidato o meglio anticipato dall’azione delle autorità. Nel primo caso il deprezzamento sarebbe la conseguenza di massicci deflussi di capitali all’estero e disinvestimenti da parte di non residenti. La stabilità del sistema bancario sarebbe messa a rischio dalle fughe di capitali e il costo dei finanziamenti sarebbe molto elevato sia per lo Stato sia per il settore privato. Il risultato sarebbe alta inflazione e recessione. In alternativa, le autorità possono agire in maniera tale da determinare una svalutazione teoricamente “istantanea” o comunque quanto più rapida possibile e di entità tale da ingenerare nel mercato aspettative di apprezzamento o quanto meno di stabilità del valore esterno della moneta. Se si riesce a fare questo, i deflussi di capitali sarebbero contenuti e forse vi sarebbero afflussi. I tassi d’interesse (quantomeno in termini reali) dovrebbero scendere. Si avrebbe ovviamente una fiammata inflazionistica, per via dell’aumento dei costi delle importazioni, ma si potrebbero forse evitare i rischi peggiori in termini instabilità del sistema finanziario, credit cruch, aggravamento della recessione.

  12. Gli interventi della Banca Centrale. Operativamente, sarebbero le autorità in grado di fissare contemporaneamente due diversi tassi di cambio? La risposta sembra essere positiva, a meno che non vi sia una forte azione di contrasto da parte di altre banche centrali. In sostanza, il tasso di conversione verrebbe fissato da un decreto, che dovrebbe ovviamente specificare che la conversione è unidirezionale, nel senso che i valori in euro si convertono in lire a un cambio, poniamo, di 1 a 1, ma non viceversa. Chi ha lire non potrebbe convertirle in euro allo stesso cambio di 1 a 1.  Contemporaneamente, o subito dopo (?), la banca centrale dovrebbe dichiararsi pronta a vendere o comprare lire in cambio di valuta estera a un tasso di cambio fortemente svalutato. Occorre decidere se sia  opportuno che il nuovo tasso di cambio rispetto all’estero venga formalmente annunciato. L’esperienza suggerisce che una banca centrale può non essere in grado di determinare un apprezzamento della propria valuta, ma è quasi sempre in grado di provocarne un deprezzamento, in ragione del fatto che per realizzare questo obiettivo deve vendere la valuta che essa stessa può produrre in quantità teoricamente illimitata. A questa strategia si possono opporre le banche centrali di paesi terzi che possono fare l’operazione opposta, acquistando lire e vendendo la propria valuta. In sostanza si metterebbe in moto una classica rincorsa alle svalutazioni competitive attraverso le quali ogni paese cercherebbe di esportare all’estero la propria recessione. Vi è un rischio evidente di “retaliation” con misure protezioniste da parte di altri paesi. A fronte di questo rischio, va però valutato il rischio di massicce fughe di capitali, generati dall’aspettativa di un deprezzamento, che manterrebbero elevati i tassi d’interesse reali e soprattutto metterebbero a rischio la stabilità del sistema bancario italiano.

Conclusioni

Questa checklist di problemi, per quanto iniziale e sicuramente parziale, dimostra che un’eventuale rottura dell’euro è un evento traumatico e che cercare di gestirlo in modo da contenerne le conseguenze economiche e sociali comporta operazioni di straordinaria complessità sotto il profilo tecnico e politico. Molte cose potrebbero sfuggire al controllo delle autorità. Non è detto, ad esempio, che si riesca ad evitare il crollo del sistema bancario o di alcune banche con le tremende conseguenze che ciò avrebbe sul risparmio delle persone e sulla operatività delle imprese. Va anche considerato che tutte le operazioni che si sono qui illustrate dovrebbero essere condotte in un clima di estrema tensione politica e sociale sia all’interno sia nei rapporti con gli altri paesi. Con tutta probabilità cesserebbe di esistere o comunque non avrebbe più alcun ruolo l’Unione Europea. Dopo un periodo di disordine e tensioni, si tornerebbe a un regime che abbiamo già conosciuto e dal quale abbiamo cercato di liberarci proprio con il progetto europeo: svalutazioni, inflazione, controlli valutari, repressione finanziaria, protezionismo. Il problema della finanza pubblica non sarebbe affatto risolto, anche se un periodo di alta inflazione può erodere di qualche punto di Pil il valore del debito. La svalutazione darebbe un po’ di respiro alle imprese, ma non risolverebbe certo i problemi strutturali di bassa competitività del nostro sistema. Anzi, come è avvenuto nel passato, rischierebbe di ritardare gli adeguamenti che sono comunque necessari, in termini di ricerca e sviluppo, internazionalizzazione, dimensioni aziendali, apertura ai capitali di terzi e governance. La fine dell’Unione Europea e le reazioni protezioniste degli altri paesi rischiano di ricondurci a una dimensione sostanzialmente autarchica che non abbiamo mai conosciuto in tutto questo dopoguerra.

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