Banche: l’eccesso di regolazione strozza il credito

Al contrario di quella che è una diffusa percezione dell’opinione pubblica, il sistema di regole cui è soggetto il sistema bancario è profondamente mutato negli anni della crisi internazionale, ossia dal 2008 a oggi.

L’obiettivo, in sé condivisibile, che si propongono i regolatori è contenere il rischio di future crisi finanziarie di entità e rilevanza sistemica simile a quella, assolutamente devastante, che abbiamo sperimentato in questi anni. Vi sono però due ordini di obiezioni. In primo luogo, l’accumulo di decine e decine di nuove norme, spesso disomogenee fra Paesi, soprattutto nella fase attuativa, genera incertezza negli intermediari e può tradursi in un rallentamento del business principale delle banche commerciali, ossia il credito all’ economia. La seconda, e più fondamentale obiezione, attiene al fatto che, quantomeno nella transizione, esiste un trade-off molto diretto fra solidità delle banche e dimensione dei flussi di credito all’ economia. Per garantire la solidità delle banche bisogna essenzialmente aumentarne i requisiti patrimoniali, il che può essere fatto in molti modi diversi. I regolatori cercano di argomentare che, ai maggiori requisiti di capitale, le banche potrebbero far fronte sul mercato senza dover ridurre i prestiti all’economia. Nell’opinione delle banche e di buona parte degli studi scientifici, questo è forse vero nel lunghissimo periodo, oppure in quel mondo ideale in cui valgono le condizioni del teorema di Modigliani-Miller, secondo cui in assenza di distorsioni e asimmetrie informative il valore di un’impresa non dipende dalla composizione delle sue passività. Al riguardo, giova ricordare che lo stesso Franco Modigliani non si è mai stancato di ripetere che quelle condizioni non esistono nel mondo reale e che il teorema serviva proprio a stimolare un filo- ne di ricerca volto a capire perché e in quale misura tali condizioni non fossero rispettate. Il fatto è che, quantomeno per un lungo periodo di transizione, il costo del capitale cresce al crescere della domanda di capitale, specie quando tale domanda perviene al mercato da parte di un gran numero di grandi banche a ciò costrette dalla regolazione. Ciò avviene in un contesto di tassi d’interesse estremamente bassi, in cui si riduce quasi a zero la capacità delle banche di remunerare adeguatamente il capitale che chiedono al mercato. La conclusione cui si giunge, dunque, è che la maggiore patrimonializzazione imposta dal regolatore viene conseguita dalle banche attraverso una riduzione del denominatore, ossia degli attivi e, in particolare, dalla loro componente più rischiosa o comunque meno liquida rappresentata dai prestiti all’economia. I dati confermano che in quasi tutti i Paesi, negli ultimi anni, si è avuto un calo molto marcato dei prestiti all’economia. È possibile che ciò sia dovuto in parte a fattori di domanda, in un contesto complessivamente recessivo, ma è anche certo che in questi anni le banche sono state pressoché obbligate a cercare imprenditori di prima qualità, scartando imprese e famiglie la cui richiesta di credito avrebbe, invece, trovato soddisfazione con il vecchio quadro regolamentare. Di qui il timore che le nuove regole abbiano concorso ad aggravare la recessione e soprattutto la sua durata nel tempo. Gli snodi-chiave di questo percorso regolatorio sono rappresentati da Basilea 3, un accordo che avrebbe dovuto essere attuato con gradualità, ma i cui effetti sono stati fondamentalmente attualizzati dai mercati e dalla proposta fatta nel novembre scorso dal Financial Stability Board al G20 di Brisbane (Total Loss Absorbing Capacity – TLAC). Tale proposta prevede l’introduzione di un parametro volto a rafforzare la  capacità  delle banche di rilevanza sistemica di assorbire perdite in caso di improvvise turbative di mercato. Il TLAC comporta aumenti del capitale proprio sino a un livello compreso tra il 16% e il 20% dell’attivo ponderato e influisce sull’assetto organizzativo delle banche, con impatti particolarmente negativi nell’Europa continentale. La direttiva europea sulla risoluzione delle crisi bancarie, entrata formalmente in vigore nel gennaio 2015, impone il cosiddetto bail-in. L’idea sottostante è che gli Stati non debbano più intervenire, se non in casi del tutto eccezionali, per salvare le banche, cosa che hanno invece fatto in misura rilevantissima nel 2008-2009. D’ora innanzi il salvataggio dovrà gravare, nell’ordine, su azionisti, obbligazionisti e grandi depositanti. Questa direttiva aggrava il quadro complessivo, perché obbliga le autorità di vigilanza a prestare la massima attenzione per evitare che una banca entri in uno stato di crisi sia per gli effetti che la crisi stessa avrebbe sugli stakeholder della banca sia per i rischi di contagio sul resto del sistema bancario che indubbiamente aumenterebbero.

Infine, nel marzo 2015 è uscito il Rapporto del sistema europeo di supervisione finanziaria riguardo al Regulatory Treatment of Sovereign Exposures. La proposta, in sostanza, è quella di non consentire più alle banche e alle assicurazioni di considerare come privo di rischio il debito degli Stati e di porre limiti alla concentrazione dei rischi anche in questo comparto. Si tratta di una proposta di cui si comprendo- no le ragioni, ma che comporterebbe un notevole appesantimento dei requisiti di capitale, in particolare per i Paesi con alto debito pubblico come l’Italia. C’è, inoltre, da chiedersi se abbia senso l’idea sottostante di scindere il rapporto fra rischio bancario e rischio sovrano. È difficile immaginare che le banche possano essere rese immuni dal default dello Stato in cui svolgono la maggior parte delle proprie operazioni. Dato che il rapporto ha carattere del tutto preliminare, non si può non esprimere consenso rispetto alle parole di cautela in esso contenute. In particolare, il rapporto esprime piena consapevolezza del rischio che la proposta abbia effetti pro-ciclici e accentui la crisi dei debiti sovrani: “This means that the policy options assessed by the expert group are not envisaged as policies to be applied or announced in the current situation”. La sottolineatura del termine “announced” non sta nel rapporto originale, ma sarebbe stata certamente opportuna.

Giampaolo Galli

(Formiche, maggio 2015)

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