Gli anni ’70 nel carteggio Paolo Baffi-AC Jemolo

Paolo Baffi – Arturo Carlo Jemolo

Anni del disincanto

Carteggio 1967 – 1981

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 a cura di Beniamino Andrea Piccone

Commento di Giampaolo Galli

Roma, Palazzo San Macuto, 30 marzo

La lettura del carteggio 1967 – 1981 fra Paolo Baffi e Arturo Carlo Jemolo (curato da Beniamino Andrea Piccone, edito da Aragno) ha provocato in me emozioni piuttosto intense, dovute a più motivi: alcuni personali, altri legati ad una riflessione più generale sulla storia recente del nostro paese.

I motivi personali dipendono dal fatto di aver avuto il privilegio di frequentare Paolo Baffi. Fui assunto in Banca d’Italia nel 1978, quando Baffi era ancora Governatore. Ma l’allora Direttore Generale, Carlo Azeglio Ciampi, mi consentì di terminare il dottorato a MIT fino a tutto l’anno accademico 1979-80. Presi quindi servizio effettivo nel settembre del 1980, quando Baffi aveva già dato le dimissioni a seguito dalla orrenda vicenda che lo vide incriminato assieme a Mario Sarcinelli. Nel giro di poco tempo Baffi cominciò a chiamarmi e voleva spesso che fossi al suo fianco, per nessun particolare motivo. Per parlare. Io ero un giovane di 30 anni fresco di studi americani, avevo studiato e fatto ricerca con persone che a Baffi erano ben note (Franco Modigliani, Paul Samuelson, Robert Solow, Evsey Domar, quello del modello Harrod – Domar ). Baffi era curioso di capire come io vedessi il mondo.

Rileggendo ora le pagine di questo carteggio mi rendo conto che vedevo l’Italia più o meno come la vedeva lui, il che è sorprendente data la differenza d’età.

Come Baffi, ero pessimista sull’Italia. Mi sembrava che mancasse una classe dirigente. Ero stupefatto da errori di politica economica come l’accordo Lama- Agnelli. Pensavo che si dovessero attuare gli impegni contenuti nella lettera di intenti sottoscritta qualche anno prima da Guido Carli con il Fondo Monetario Internazionale. Ero indignato contro un potere politico che aveva messo le mani sulle banche e, in ampia misura, sul sistema industriale. Non riuscivo a capacitarmi dei comportamenti di una parte della magistratura chiaramente connessa alla politica. Nel libro di Piccone (pag. XXXV) c’è una straordinaria citazione del giudice Alibrandi che, in un’intervista mai smentita al Messaggero, accusa la Banca d’Italia di “parzialità in vigilando” perché si sarebbe accanita con una pioggia di denunce “nel Trentino, più generalmente nel Veneto, come in Sicilia, cioè in quelle località (…) note come feudi democristiani”, il che è francamente incredibile. Vorrei anche dire che oggi scopro, o riscopro, che avevo invece stima di un’altra parte della Democrazia Cristiana, quella di Aldo Moro e Beniamino Andreatta. Come avevo stima di molte persone con cui Baffi era o era stato in corrispondenza, come risulta da questo libro: Luigi Spaventa, Enrico Berlinguer, Raffaele Mattioli, Luigi Einaudi, Norberto Bobbio, l’Eugenio Scalfari di Razza Padrona, lo stesso A.C. Jemolo, che però non ebbi occasione di conoscere. Di queste cose ragionavamo in Banca e qualche volta, su forte sollecitazione della Sig.ra Sandra Baffi, anzi da Ella strattonato, nella casa di Fregene, dove conobbi Giuseppina ed Enrico.

Il mio rapporto con Baffi diventò un po’ più operativo quando fui nominato, assieme a Ignazio Musu e Stefano Zamagni, membro del Comitato Scientifico dell’Ente Einaudi, di cui Baffi era Presidente. In alcune occasioni mi chiese di aiutarlo ad affrontare dei problemi concreti. Il più spinoso fu nel 1986-7 quando toccò a Baffi concludere la prima conferenza nazionale sull’energia, quella che si tenne dopo Chernobyl e che ebbe un’influenza decisiva nel segnare l’addio dell’Italia al nucleare e ciò proprio perché il più saggio di tutti gli italiani, Paolo Baffi, che coordinava un comitato scientifico con Leopoldo Elia e Umberto Veronesi, concluse che il rischio nucleare fosse eccessivo. Ricordo giorni e giorni trascorsi a cercare di capire, partendo da una nota di un volume di Emilio Gerelli, un noto economista dell’ambiente, se fosse più grave avere incidenti rari ma gravi, con tanti morti concentrati in un tempo breve, come avvenne a Chernobyl, oppure avere incidenti continui quasi quotidiani, come avviene o avveniva per via dell’inquinamento delle centrali a carbone, con un numero di vittime complessive anche superiore. Lavorammo a lungo su cose complicate come il teorema di Von Neumann- Morgenstern e il paradosso di Allais, sinché io, esausto, gli feci una proposta assolutamente indecente: incontrare un mio amico, Chicco Testa che allora era segretario di Lega Ambiente. La proposta era indecente perché Chicco Testa e Baffi erano come il diavolo e l’acqua santa. Sapevo che Chicco sarebbe venuto in jeans, senza cravatta. Dissi a Baffi che mi sembrava un tipo molto sveglio. La conversazione per me fu imbarazzante perché Testa disse che è meglio la felicità della crescita economica e altre simili leggerezze. Però forse convinse Baffi, o contribuì a convincerlo, che il rischio nucleare era eccessivo. Credo che la decisione che maturò in quei giorni sia stato un guaio grosso per l’Italia, ma non si può dire che il governo italiano la prese in modo superficiale.

L’altro motivo per cui il libro ha suscitato in me emozioni forti è che tratta di fatti degli anni Settanta e dell’ultimo triennio dei Sessanta, che sono gli anni della mia formazione come economista. E furono anni di fuoco, come Baffi definì gli anni del suo governatorato. Anni segnati dal terrorismo, fino all’assassinio di Aldo Moro e oltre, dall’instabilità politica, da inflazione e svalutazioni continue e gravi come quella del gennaio 1976, disavanzi pubblici crescenti, controllo politico delle banche e di buona parte del sistema economico. Sullo sfondo una vicenda internazionale complessa per via del crollo del sistema di Bretton Woods nel 1971, della guerra del Kippur e dell’aumento del prezzo del petrolio nel 1973.

I giudizi di Baffi e Jemolo su quegli anni sono improntati ad assoluto pessimismo, un pessimismo che poi avrei ritrovato nella mia frequentazione di Baffi. Cito alcuni passaggi significativi.

Il 1° giugno 1979 A.C. Jemolo scrive a Baffi: “ Siamo entrati in una situazione di sfacelo in cui non si dà più separazione di poteri e competenze…”(p. 87). E poco oltre parla della “prepotenza dei politici, e quella dei magistrati, che si considerano ormai organo sovrano con poteri illimitati”. E ancora nella stessa lettera: “Credo che conosca benissimo il mio pessimismo sulle sorti dell’Italia (…); tuttavia, anche il rallentare la caduta, la discesa verso il baratro, è opera di amor patrio”.

Questi giudizi erano ampiamente condivisi. In quei giorni lavoravo con Franco Modigliani e Lucas Papademos a Cambridge MA e ricordo l’indignazione di tutti noi e di Modigliani, il quale scrisse: “sono talmente indignato che ho perso qualsiasi interesse per l’economia italiana (…) L’arresto di Sarcinelli distrugge la credibilità dell’amministrazione della giustizia e disonora il governo e l’intero paese” (p. 80).

Questi giudizi così duri si riferiscono in particolare alla vicenda giudiziaria che riguardò Baffi e Sarcinelli. Ma negli anni precedenti c’erano state le vicende di Sindona e di Calvi. La morte di Giorgio Ambrosoli, che da Baffi era stato nominato commissario liquidatore della banca di Sindona, è di quei mesi (11 luglio 1979).

Non va sottaciuto che questi giudizi riflettevano la percezione più generale di un paese che non riusciva a riprendersi. Giudizi analoghi si ritrovano in molte lettere precedenti.  Il 6 luglio 1978, Baffi scrive a Jemolo: “ Ho letto la sua nota (Italiani nel nostro secolo; NdR) con l’animo che con il procedere della lettura si velava di tristezza per il senso della decadenza di tanti valori” (p. 58).

In una lettera del 2 giugno 1978, Jemolo esprime entusiastico consenso per una parte delle considerazioni finali di Baffi in cui si dice: “ La spesa pubblica corrente ha raggiunto valori insostenibili, non risponde in modo appropriato alle esigenze sociali e per di più ha in sé fattori di ulteriore deterioramento…”(p. 55).

Il 31 dicembre 1969 Baffi aveva scritto a Jemolo il discorso immaginario dello Stato ad un risparmiatore:  “Se, impedito o dissuaso in ogni altra direzione,  affiderai il tuo peculio a una banca (…) io settore pubblico provvederò a dissiparlo, appropriandomene per finanziare disavanzi correnti dei vari enti in cui mi impersono: stato, comuni, regioni, istituti assistenziali, aziende municipalizzate e di stato; identico a me stesso solo e sempre nella mala amministrazione” (p. 15). E questo – afferma Baffi – lo direi dal “mio posto di partecipazione al governo e allo sgoverno della cosiddetta intermediazione finanziaria”. Era, lo ricordo, Direttore Generale della Banca d’Italia.

Il tema della voracità dello Stato ritorna in moltissimi scritti. In una lettera del 18 luglio 1972 a Cesare Zappulli, direttore del Giornale Baffi scrive (p. 14): “ Ho l’impressione che l’economia italiana si stia gradualmente configurando come una grande macchia rossa di statalismo, attorniata da una frangia di imprese private medio-piccole che si avvicinano a una condizione di mercato nero del profitto aziendale (….); con questo schema non andremo certo lontano.”

Guido Carli nel 1977, quando era presidente di Confindustria, in un’intervista a Eugenio Scalfari dice con il suo linguaggio sempre tagliente: “Abbiamo deresponsabilizzato l’imprenditore senza tuttavia eliminarlo, abbiamo aperto il varco all’intervento dello Stato senza tuttavia programmarlo. Abbiamo corrotto al tempo stesso il socialismo e il capitalismo” (p. 10).

Ho fatto tutte queste citazioni perché le ho trovate nel libro, e soprattutto perché sono rappresentative di una cultura che quasi tutti noi cresciuti alla Banca d’Italia, con alti e bassi, abbiamo assorbito. Una cultura azionista, laica, radicale e, come avrebbe detto Carli, addirittura “sovversiva”. Ma anche sommamente rispettosa delle istituzioni.

In conclusione, ci possiamo chiedere cosa direbbero oggi Baffi e Jemolo.

Penso che non direbbero nulla di diverso da quello che ha scritto C.A. Ciampi, che pure è sempre stato molto più moderato e controllato nei toni di quanto non lo fossero Baffi, Jemolo o Carli:  “non è questa l’Italia che ho sognato.  L’Italia è diventato il paese della politica senza valori e senza ideali; della degenerazione dell’etica pubblica e della convivenza civile. Del declino economico, delle ideologie secessioniste. Degli scandali, dei conflitti personali inconcludenti e dei conflitti d’interesse mai conclusi”. Questo giudizio fu espresso nel 2010 dopo tanti governi che avevano suscitato grandi speranze: Amato nel 1992, lo stesso Ciampi nel 1993, Dini nel 1995, Prodi nel 1996 ecc. Quindi se gli anni Settanta sono stati “gli anni del disincanto” come dovremmo definire l’oggi? Forse gli anni delle infinite illusioni e delle infinite disillusioni.

La successiva domanda dovrebbe essere: ne usciremo? Qui i nostri autori non ci possono essere di alcun aiuto. Dirò dunque la mia, ma in modo sintetico perché è fuori tema. Dopo mille illusioni e altrettante delusioni, io sono fra quelli che, nonostante tutto, continuano a sperare e a illudersi. Penso che siamo a un tornante decisivo, che è quello delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Dato che non credo che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato negli italiani, come dimostrano i grandi successi dei primi due decenni post bellici, penso che ci sia qualcosa di molto sbagliato nelle nostre istituzioni politiche, che sono concausa di fondo delle degenerazioni di cui parla C.A. Ciampi. Nel nostro sistema c’è un incentivo assolutamente perverso del tipo “rent seeking”, che consiste nell’organizzarsi in minoranza per impedire a chi ha vinto di governare, salvo ottenere da questi compensazioni in termini di posti di governo o altro. Dobbiamo passare ad un sistema con incentivi opposti, in cui tutti danno il loro contributo, anche da oppositori, al bene comune, con l’obiettivo di vincere la prossima volta.

Ma questa è la mia opinione, la mia ultima speranza. Se va a vuoto anche questa, tornerò a rileggere i carteggi degli anni Settanta.

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